Lettera a mio fratello, sublime Maestro della mia vita

 

Un dolore è più forte in primavera
per contrasto alle cose che cantano,
non soltanto gli uccelli, ma le menti
e i minuti splendori e le brezze.
(Emily Dickinson)

 

Mio carissimo Giacomo,

oggi, 11 Aprile 2020, ricorre il ventunesimo, mesto anniversario della tua scomparsa : una scomparsa terribilmente crudele, provocata dalla tragica insensatezza di una persona che, senza alcun rispetto per la vita umana e per la segnaletica stradale, dopo aver perduto il controllo del proprio mezzo, piombò a folle velocità sulla tua auto, distruggendola e togliendo la vita a te e alla sorella della tua diletta moglie Natalia, mia carissima cognata. Eravate quattro in macchina, in quella limpida e luminosa Domenica mattina : tu, Natalia, sua sorella Livia e suo fratello Adolfo, tutti serenamente ed allegramente in gita fuori porta, fra le dolci colline del Chianti inondate da un tiepido sole primaverile. Attorno a voi c’era il canto delle cose ; poi, d’improvviso, l’orrendo frastuono della morte per te e per Livia ; l’inizio di un lungo e dolorosissimo ricovero ospedaliero per Natalia ed Adolfo.

Qualcuno mi avvertì dell’immane tragedia solo qualche ora dopo ; corsi disperatamente da te, inseguendo chissà quale vana, irrazionale speranza : non potevo accettare l’idea che tu, proprio tu, potessi morire : tu, il fratello maggiore di quattordici anni, che fin da quando ero piccolo mi era stato sempre accanto come un secondo amorevole padre, come un amico dolcemente affettuoso, come un consigliere rassicurante ed infallibile ; il fratello che solo pochi giorni prima aveva festeggiato con me il suo settantaseiesimo compleanno ; il fratello che avevo visto proprio il sabato prima dell’incidente per prendere insieme un aperitivo, in un clima di gioiosa condivisione, perché incontrarsi per noi era sempre come un momento particolare di festa : no, non potevo accettare in alcun modo che proprio questo intramontabile fratello ora non ci fosse più!

Ma l’implacabile realtà, purtroppo, mi concesse soltanto di poter dare un ultimo bacio e una carezza ad un viso ormai senza vita ; un volto che tanto avevo amato , dove , fra le lacrime , mi parve di intravedere un’ultima traccia di meraviglia e di incredulità per una morte così assurda.

Forse è proprio vero che “un dolore è più forte in primavera”. La Primavera è un inno di Resurrezione che vince la Morte ; il 4 Aprile 1999, Domenica di Pasqua, proprio la Domenica antecedente la tua scomparsa, noi quell’inno lo avevamo cantato e vissuto gioiosamente insieme : e tu ed io ne portavamo ancora l’eco nel cuore quando tutto, improvvisamente, si trasformò in un pianto senza fine.

Per tanto tempo dopo la tua drammatica morte non sono riuscito a liberarmi dalla convinzione che tutto un mondo di magiche sintonie che ci avevano sempre uniti si fosse irrimediabilmente sbriciolato, lasciandomi con la sensazione angosciosa di essere rimasto come un povero frammento disperso nel vuoto. Mi pareva di avere ormai smarrito in modo indelebile quel senso di confortante sicurezza che il semplice “sapere che c’eri” mi aveva sempre donato, anche quando eravamo lontani.

Quando, dopo le tue tristissime esequie, ritornai lentamente alla mia attività quotidiana di psicologo che ascolta, interpreta, sostiene gli amici interlocutori perché possano ritrovare il proprio, rigeneratore “posto delle fragole”, sulla cui possibilità o esistenza non avevo mai dubitato fino ad allora, mi sentii per la prima volta disorientato ed in preda ad una vera tempesta interiore che rischiava di incrinare tutte le convinzioni sulle quali lavoravo appassionatamente da tanti anni. Ebbi la sensazione che senza il solido riferimento della tua presenza, il mondo avesse smarrito tutta la sua luminosità e fosse entrato come in un cono d’ombra, inaridendosi e perdendo quello smalto primaverile che mi aveva sempre entusiasmato. Avevo, certo, la vicinanza della mia famiglia, dei miei nipotini, degli amici ed amiche più importanti, ed il grande conforto della presenza della mia carissima cognata Natalia, che assistevo con amore, aiutandola, come potevo, a riprendersi dalle ferite del corpo e dell’anima, mentre la ammiravo profondamente per il coraggio con cui riusciva quotidianamente ad elaborare il lutto della tua scomparsa e di quella della sorella. Ma la tua mancanza, per me, era come una ferita abissale, che, muovendo dalla brutale lacerazione del presente, si propagava, con un’onda d’urto incontenibile, fino agli strati più profondi della mia personalità, toccando e scuotendo con dolore indicibile le fasi più remote della mia vita trascorsa con te, dall’infanzia all’adolescenza, alla giovinezza ed oltre.

Per mesi e mesi la sofferenza della tua perdita mi ridusse al silenzio : un silenzio interiore, cupo e desolato, che come una gelida coltre di ghiaccio avvolgeva ed imprigionava la mia anima, rubandomi il calore dei ricordi ed il conforto della memoria. Continuavo a seguire pur sempre, con il consueto amore e partecipazione, tutti i miei quotidiani interlocutori, ma non appena mi accadeva di distogliere anche per un solo attimo l’attenzione dai loro problemi per concentrarmi su me stesso, venivo subito inghiottito da un senso di disperata solitudine, che mi faceva sentire come sperduto in una specie di nebbia dove tutto il mio passato mi appariva vago e indistinto.

Mi trovavo ad essere come un naufrago in alto mare, all’affannosa, ma vana ricerca d’un relitto cui aggrapparmi ; un orfano ripudiato, sperduto, in esilio e senza meta ; oppure un fuggiasco terrorizzato, inseguito furiosamente da ombre crudeli che tormentavano le mie notti, in un crescendo che sembrava non aver mai fine.

Eppure, la vita con te era stata una continua fonte di doni inenarrabili di amore, di saggezza, di amicizia, di vicinanza, di aiuto, di comprensione, di sorrisi, di dolce complicità, di accoglienza incondizionata : com’era possibile che tutta questa sferica armonia potesse correre il rischio di rimanere repentinamente polverizzata, come un edificio di cartapesta costruito solo per l’illusorietà di una finzione scenica?

Dovevo assolutamente uscire dal malefico incantesimo di questa torpida e silenziosa amnesia, per ritrovare almeno uno spunto, un filo conduttore che mi permettesse di ridar vigore e nuova convinzione a ciò che tu, con la tua presenza avevi lasciato dentro di me. Se per un’intera vita avevamo viaggiato insieme, tenendoci per mano, fino a che, improvvisamente, il fiume atroce della morte si era frapposto fra noi, separandoci e gettandoci brutalmente su sponde opposte, ebbene : a questo punto, oltrepassando la barriera del pianto, diveniva assolutamente necessario tentare di costruire un ponte che quelle due sponde potesse in qualche modo ricongiungerle, perché riprendessimo nuovamente a camminare insieme, questa volta nella preziosa e profondissima eredità del ricordo, che nessuna morte avrebbe potuto mai più dividere.

Dopo lunghi mesi di smarrimento, questo desiderio di ritrovarti in me, di riallacciare un dialogo che, se non era più possibile nella quotidiana realtà, lo poteva essere fra due anime che per tanti anni si erano trovate in magica corrispondenza, cominciò lentamente a prendere sempre più consistenza nella mia mente.

Ma a quel punto fosti tu, proprio tu, fratello mio carissimo, a “rompere” per primo il silenzio interiore che da tanto tempo mi affliggeva, porgendomi quel “filo d’Arianna” che da mesi stavo cercando : e ciò accadde un giorno in cui avvertivo più acutamente del solito la tua mancanza e mi trovai a riprendere in mano, spinto da un intenso ed inarrestabile desiderio, un libretto dove la mia carissima amica Giovanna, nel 1996, aveva fatto pubblicare, a sorpresa, alcune mie poesie, che aveva raccolto sotto il titolo “Shahrazad” (dal titolo di una di esse), per farmene prezioso ed indimenticabile dono in occasione dei miei sessanta anni. In quella circostanza ella ti aveva chiesto “in tutta segretezza” di redigere una prefazione, che ti aveva trovato subito pienamente consenziente e commosso.

Più volte, da quando quel libro mi era stato regalato e tu eri ancora in vita, avevo letto e riletto con grande emozione e profondissima, affettuosa riconoscenza, le parole che mi avevi dedicato per introdurre le mie poesie ; parole che comunicavano tutto l’amore attento, delicato e paterno che avevi sempre avuto per me :

“Caro Luigi,

l’idea della signora Giovanna di raccogliere le tue poesie in un piccolo libro e l’invito di scrivere una “specie” di prefazione mi hanno piacevolmente sorpreso e commosso.

Forse nessuno più di me ti conosce, perché il divario di età che ci distanzia (quattordici anni) mi ha permesso di seguire, momento dopo momento, la tua crescita naturale e spirituale.

Sotto i miei occhi, attenti e consapevoli, scorre ancora oggi il tuo cammino di bimbo, di adolescente, di uomo nella quotidianità della vita. Non meno importante è stato il maturarsi in te di quel mondo di luci, ombre, colori, sensazioni, suoni, immagini, sogni che, in fondo, è patrimonio di tutti i giovani.

In genere quel mondo si attenua e quasi svanisce col passare del tempo, ma per te, Luigi, non è stato così : questa ricchezza interiore è rimasta in te sempre viva.

La tua capacità di immaginare, sognare, di proiettarsi al di là dei limiti della realtà, alimentata anche dalla passione per la musica, ti pone in una posizione privilegiata.

I pochi uomini che la posseggono, noi li chiamiamo poeti : tu, Luigi, sei uno di loro!

Gli studi filosofici ti hanno fatto “novello Socrate” alle prese con le anime “partorienti” di generazioni di giovani. Il desiderio di approfondire la conoscenza della psiche umana ti ha spalancato nuovi orizzonti : l’umanità, al di là della sua apparenza, ti ha mostrato il mistero della sua interiorità, groviglio di contraddizioni, angosce, ansie, dolori, speranze, desiderio di vero amore e comprensione. La tua totale disponibilità verso gli altri ti ha reso partecipe di quel mondo : ai singoli hai sempre saputo dare consigli, solidarietà, amore.

Il mondo dei “filosofi” e della “analisi” non ha intaccato il tuo “mondo poetico” , anzi lo ha reso più cosciente ed ha accentuato il dramma della miseria della quotidianità che “sparge veleno mortale sul miele dei sogni”. Da una parte “il miele dei sogni” è il desiderio d’Amore che tutti abbiamo, “sono i tuoi sorrisi d’incanto nella penombra dell’ascolto”. Dall’altra “il veleno mortale” è sempre in agguato : quanta amarezza riesci ad esprimere per questi “giovani stanchi”, “con le loro siringhe di illusioni”, o che “scagliano pietre nella notte per mettere in fuga le ombre del Nulla” !

Ma quando tutto sembra perduto e “scivola lentamente nell’oscura agonia dei ricordi, dove il sorriso si spegne in singhiozzo e dove è vano tingere d’azzurro le ombre” c’è, tuttavia, la speranza che qualcosa“faccia rinascere la mia anima sperduta di bimbo”

Non perdere mai, Luigi, la tua “anima di bimbo” : è un tesoro impagabile, cui dovresti, però, attingere più spesso!

E’ un rimprovero affettuoso che tante volte ti ho ripetuto.

Tuo fratello”

Dopo la tua morte, non avevo più osato accostarmi a questo scritto, a causa del dolore troppo intenso e lacerante che le tue parole mi suscitavano, adesso che non c’eri più. Ma in quel giorno particolare, quella tua testimonianza di amore così profondo nei miei confronti rientrò impetuosamente nel mio cuore in modo del tutto nuovo, come uno struggente richiamo a tornare a sorridere insieme, a riappropriarci della storia della nostra vita, a ripercorrere, f​in dall’inizio,​ uniti come un tempo, le tappe fondamentali del nostro indimenticabile cammino di fratelli.

E fu come se, improvvisamente, tu avessi messo in fuga dalla mia anima il terribile, ingombrante e tenebroso ostacolo della Morte, che fino a quel momento aveva tenuto prigioniero il libero e luminoso fluire dei ricordi, e mi avessi spalancato nuovamente le porte del fiorito giardino della speranza.

Subito, il desolato silenzio, che troppo a lungo aveva tormentato la mia mente dopo la tua scomparsa, cominciò ad animarsi, a riempirsi di voci remote, di sussurri, di richiami, di brusii, di sensazioni, di immagini del più lontano passato e del presente più recente, mentre progressivamente si ricomponeva dentro di me la trama armoniosa di tutte le amorevoli attenzioni con le quali avevi sempre riempito la mia esistenza.

Ma la gioia più grande, fra tutta questa festosa armonia, fu quella di poterti ritrovare dentro di me, con rinnovata e limpida chiarezza, come quel magico, intramontabile ​Maestro di Vita,​ che, col suo esempio e con la sua premurosa vicinanza, mi aveva insegnato, per tutti i sessantatre anni trascorsi insieme, a credere in me stesso, ad amare i più alti valori, a sconfiggere, contenere, trasformare in nuove aperture alla Vita le nere ombre del dolore, del dubbio, della sfiducia, della disperazione, della disfatta, che talvolta avevano attanagliato la mia anima.

Oggi, carissimo fratello, di questa preziosa ed intramontabile eredità voglio renderti commossa e riconoscente testimonianza, perché più mi volgo indietro a contemplare la storia della mia vita, specialmente adesso che sono ottantaquattrenne, e più mi accorgo che buona parte di ciò che sono diventato, che penso e che sento, lo devo sicuramente a te.

Quante “svolte” e quanti “passaggi”, anche drammatici, della mia esistenza avrebbero potuto avere un corso assai diverso, forse decisamente negativo, se non ci fossi stato tu a “difendermi”, a seguirmi, a dialogare instancabilmente con me, a correggere le mie “derive”, a farmi sentire “migliore” tutte le volte che ti incontravo!

Io sono fermamente convinto che questa tua dolce presenza, così ricca di sapienza e di entusiasmanti alchimie, abbia iniziato, come un armonioso “basso continuo”, a confortare assai presto la mia vita, forse fin da quando, fragile bambino, ho cominciato ad aprire gli occhi sul mondo, a prendere coscienza di esserci, a vivere i miei primi conflitti e le mie prime paure, e ti ho trovato subito accanto a me, a spargere il calore benefico del tuo rassicurante amore.

E’, questa, una certezza, che, se provo a risalire al mio più lontano passato, si tinge improvvisamente di magia e mi riporta immediatamente ad un evento assai antico, che abbellisce la mia memoria e commuove ancora la mia anima tutte le volte che mi accade di rievocarlo : ed è lo splendido, affascinante dono di un teatrino di “pupi siciliani” che tu, allora diciannovenne, mi facesti un giorno ormai remoto nel tempo, a Mazara del Vallo, in occasione del mio quinto compleanno, l’11 Dicembre 1941.

Sapessi quante palpitanti emozioni sono rimaste legate in modo indelebile a quell’indimenticabile regalo!

Anche se sono passati ormai quasi 78 anni, ricordo come se fosse ieri quell’intrepida schiera di marionette straordinarie, che accompagnò per alcuni anni la mia prima infanzia, anche se, purtroppo, con mio grande dolore, il teatrino andò fatalmente smarrito durante uno dei tanti concitati spostamenti che dovemmo effettuare nel corso della seconda guerra mondiale, prima di “approdare” definitivamente a Firenze, nel 1945 ; tuttavia esso è rimasto indelebilmente scritto nel libro dei miei ricordi, soprattutto per il profondissimo ed anche sconvolgente impatto emotivo che ebbe dentro di me, e per l’intenso valore affettivo, indissolubilmente legato alla tua figura, che, ancora oggi, a distanza di tanti anni, continua a conservare nella mia mente.

Perché è proprio su quel minuscolo palcoscenico, che tu, giocando amorevolmente col tuo piccolo fratello che stava appena cominciando la sua crescita, colma di meraviglie, ma anche trepida di insicurezze e di timori, ed inventando per lui affascinanti storie di cavalleresche battaglie, ti presentasti per la prima volta nella mia vita in quel ruolo, che mai più avresti abbandonato, di saggio regista, in grado di insegnare mirabilmente a sdrammatizzare e sconfiggere vittoriosamente le ombre insidiose della paura e del dolore ; ed è da quel teatrino che io ho sempre pensato sia iniziato il meraviglioso “romanzo” della nostra vita di fratelli.

Lascia, allora, che, riandando col pensiero a quei giorni lontani, io rievochi oggi, con gioia e con “anima di bimbo”, quel tuo magico ingresso nella mia vita, rintracciando nella memoria non solo le immagini, ma anche le tue parole e, quasi, il “suono” della tua stessa voce, che sempre riecheggerà come un’eco lontana nella mia mente e nel mio cuore.

E’ bello lasciarsi andare al ricordo della palpitante curiosità che si impadronì di me, in quell’indimenticabile giorno di festa, quando tu, con un amorevole e tenero sorriso, affidasti inaspettatamente alle mie piccole mani tremanti ed incerte per la sorpresa un maestoso, coloratissimo e “misterioso” scatolone ; e rammento, poi, la sconfinata meraviglia che mi lasciò letteralmente a bocca aperta, quando, da quel magico involucro “balzarono” fuori dieci “pupi”, assieme ad un piccolo palcoscenico di legno multicolore, decorato con armoniosi arabeschi, con uno scenario dipinto a mano, rappresentante un paesaggio, ed un sipario color “bordò”, tutto da montare.

Erano dieci guerrieri armati di tutto punto, ma divisi in due schiere chiaramente contrapposte fra loro, come se il costruttore del teatrino avesse voluto distinguere nettamente i “buoni” dai “cattivi” : cinque erano drappeggiati con vivaci tuniche gialle, gigliate, che spuntavano sotto luccicanti armature di latta dorata, sormontate da elmi variamente piumati, dai quali si intravedevano volti intensi, baffuti e fieri. Tutti portavano al braccio sinistro un grande scudo romboidale con pittoreschi stemmi, mentre nella mano destra brandivano minacciosi spadoni. Gli altri cinque erano vestiti di scuro, con tuniche orlate d’argento che si intravedevano sotto armature di latta grigia, dalle quali spuntavano, racchiusi in elmi appuntiti, visi dal cipiglio crudele, con barbe e baffi dall’aspetto feroce. Anch’essi erano armati fino ai denti, con scudi rotondi, borchiati e con terribili, devastanti scimitarre nelle mani artigliate.

Dopo un primo momento di muta meraviglia per lo stupendo dono, subito la mia impaziente curiosità mi portò ad “inondarti” festosamente di pressanti domande circa l’identità di quei personaggi, e quando tu, con sorridente ed affettuosa disponibilità e complicità, mi spiegasti chi fossero quei “misteriosi” guerrieri, narrandomi pazientemente delle mitiche lotte di un tempo remoto, sostenute dai paladini del valoroso e saggio Re Carlo Magno, per difendere l’Occidente contro gli invasori Saraceni, immediatamente la mia fantasia iniziò a sbrigliarsi e a lavorare intensamente, sceneggiando per la prima volta in vita mia, senza che io ancora lo sapessi, l’arduo conflitto fra il Bene ed il Male, come avrei scoperto anni dopo.

Per giorni e giorni rimasi quasi “ipnotizzato” da quelle affascinanti marionette, che guardavo attentamente, con rispettosa soggezione e che, a loro volta, “mi guardavano fisso” mentre le maneggiavo e le facevo muovere con gesti ora cauti e delicati, ora rapidi e concitati ; fino a che, giunto al colmo di una crescente eccitazione, non decisi di diventare anche io un paladino, che, con un’improvvisata spada di legno, sulla terrazza della mia casa, cavalcando un vecchio cavallo a dondolo, galoppava intrepido e a perdifiato al fianco dei cavalieri franchi, anch’io cercando di trasformarmi in un invincibile guerriero che, assieme al re Carlo, a Orlando, Rinaldo, Ruggero, Oliviero, sbaragliava con sovrumana facilità i “perfidi” nemici Saraceni, con a capo il loro terribile re Marsilio. E furono giorni di strabiliante orgoglio quelli che seguirono il tuo “mitico” regalo.

Ma, ben presto, lo sforzo diurno della mia ricerca di guerresca “gloria”, dovette cominciare a fare i conti col “contrattacco” notturno degli uomini neri, che dilagarono inaspettatamente nei miei sogni, terrorizzandomi, come se in quei tenebrosi guerrieri si fossero concentrate improvvisamente tutte le mie paure di bambino, che già da tempo si agitavano dentro di me, in totale contrasto con i miei “eroici furori”. Ero ancora troppo piccolo e troppo, forse, avevo osato nello “svegliare” e “sfidare”, da incauto “apprendista stregone”, forze misteriose che ancora non conoscevo nè sapevo controllare o vincere.

Così, quel teatrino, mentre da un lato era la mia “delizia” quando le armature dei miei amici Paladini luccicavano trionfalmente di giorno, sotto lo splendido sole della nostra Sicilia, divenne anche la mia “croce” quando quel sole rassicurante iniziava a tramontare ed io, incalzato dalle prime ombre della sera, cominciavo a sentirmi circondato e spiato minacciosamente dagli scuri soldati della Notte, mentre i miei Paladini si dileguavano lentamente nel buio, lasciandomi indifeso e smarrito, senza che io sapessi più, a quel punto, chi fossero i veri vincitori e i vinti.

La paura era grande ; ma ancora più intenso di qualunque timore si svelò, poco a poco, il fascino strano che questo conflitto fra “Luce” ed “Ombra” esercitava sulla mia piccola mente, coinvolgendomi sempre più profondamente. Anche se talvolta mi sentivo disorientato, inerme, tremante e senza via d’uscita, avvertivo tuttavia dentro di me una oscura forza irresistibile, che mi spingeva a ripetere ogni giorno tutte le mie fantastiche “battaglie”, come se vi fosse in esse qualcosa di vagamente “familiare”, ma che ancora mi era sconosciuto. Forse quel bellissimo, ma anche “enigmatico” dono che mi avevi fatto, aveva attivato in me un “subbuglio” interiore, magari un segnale di crescita, peraltro già latente e pronto a “decollare”, che aveva messo in movimento tutto il mio mondo emozionale, ponendomi a confronto con sentimenti, sensazioni e dinamismi mai provati in precedenza, oppure solo oscuramente avvertiti. Inoltre, all’orizzonte di quel tempo vi era anche la triste realtà della “guerra dei grandi” a sollecitare, amplificare e complicare i miei fervori fantastici e le mie paure di bambino.

Poi vennero alcuni giorni invernali, grigi e piovosi, in cui rimasi immobilizzato a letto a causa di una forte e persistente febbre, che mi aveva obbligato ad interrompere inaspettatamente tutti i miei giochi e le mie curiosità, rendendomi assai triste, “sconsolato” ed anche molto intimorito ; e fu proprio in un piovoso pomeriggio di queste noiose giornate, che tu, inaspettatamente, ti presentasti sorridente e solare ai piedi del mio letto, col magico scatolone dei pupi in mano, proponendomi di “giocare”.

Ricorderò sempre l’inaspettata meraviglia di quel pomeriggio, che, inizialmente deprimente, anonimo ed insipido, uscì d’improvviso dal tempo, venendo da te trasformato in uno dei momenti più emozionanti ed illuminanti della mia esistenza, perché, dopo la mia entusiastica ed immediata adesione alla tua proposta, tu, non so se intenzionalmente o meno, “entrasti”, nel modo più semplice e diretto, nel cuore di tutte le mie paure e dei miei conflitti, come se li conoscessi da sempre, donandomi una prima, stupenda lezione di Vita e di Amore, la quale, vista oggi, mi appare come la vera “ouverture” di tutta quella tenera, premurosa, discreta ed attenta presenza di cui poi saresti stato prodigo nei miei confronti per tutto il resto della tua esistenza, ed oltre.

“Adesso, Gigetto – mi dicesti – basta di essere così triste ed impaurito ; vediamo di far tornare un po’ di sorriso sul tuo visino!”, e, mentre pronunciavi queste parole, cominciasti a montare con allegra destrezza il palcoscenico, col suo paesaggio dipinto, ed il sipario, disponendo, poi, con abili gesti, ai due lati del proscenio, le due schiere di soldati. Quindi, con voce più intensa e solenne, come per creare una certa “atmosfera”, proseguisti : “ecco : ora immaginiamo che questo palcoscenico sia la stanza del tuo castello, dalla quale puoi osservare un bellissimo paesaggio primaverile : vedi? ci sono alberi fioriti, prati verdi, piccole colline con casette in lontananza, un bel sole, una grande quiete, e tu sei beato e felice.

Ma poi, avviene che il sole comincia lentamente a tramontare e, ad un tratto, quando meno te lo aspetti, qualcosa cambia – e la tua voce, a questo punto, si fece più bassa e concitata, come se stessi parlando di un pauroso “mistero” – : furtivamente, “qualcuno”, vestito di scuro, entra nella stanza – e qui prendesti uno dei “tenebrosi” guerrieri e lo facesti muovere lentamente sul palcoscenico – ; tu non vorresti, cominci a spaventarti, gli dici di andarsene, ma lui continua ad avanzare implacabile, mentre, sempre più agitato, ti accorgi che non è solo : dietro di lui ne arrivano altri, anche loro vestiti di scuro ed armati fino ai denti : tutti entrano, uno dopo l’altro, nella tua stanza – e a questo punto collocasti sul palcoscenico tutti i Saraceni, in piedi, appoggiati allo scenario dipinto – : adesso si tratta di una vera e propria invasione, che non riesci a fermare, che ti terrorizza, che ti fa rimanere muto, senza fiato e senza speranza di salvezza! Ti senti perduto ed il tuo cuore batte sempre più forte, fino a che la tua grande paura si trasforma in una grande febbre, con la quale i perfidi Saraceni si impadroniscono definitivamente di te, perché in realtà quella febbre, che ti toglie ogni forza e ti fa sentire vinto, te la trasmettono loro, sfiorandoti con le loro terribili scimitarre avvelenate! “Loro”, adesso, sono la tua stessa febbre! Vedi come ti guardano e ridono ferocemente, danzando selvaggiamente per celebrare la loro vittoria? – e qui prendesti quei guerrieri tutti insieme, facendoli saltellare sul palcoscenico con grande destrezza, mentre accompagnavi quella danza di guerra intonando un’arietta immaginaria, in maniera “modulata” e volutamente “arabeggiante” –. Ormai sei loro schiavo e non ti rimane altro che dire le tue preghiere ed implorare pietà, sperando che nel cuore di quei terrificanti soldati sia rimasto almeno un ultimo barlume di umanità!”.

Mentre tu inventavi e sceneggiavi questa “terribile” invasione mediante le parole, i toni della voce e i gesti, collocandovi tutto l’estro, la passione ed anche l’allegria dei tuoi diciannove anni, io ricordo bene il trascinante crescendo di intenso interesse che si diffuse dentro di me, seguendo, a mia volta, la tua drammatizzazione : ma ciò che mi affascinò più di tutto non fu solo il piacere, assieme alla sorpresa, alla riconoscenza ed all’orgoglio, di vederti recitare per il tuo fratello più piccolo, ma anche l’entusiasmante sensazione che in quel modo così divertente e tragicomico tu stavi, per la prima volta, dando un volto alle mie paure di bambino, condividendole con me, rendendomele familiari e, nel contempo, sdrammatizzandole.

Però, la sorpresa più bella ed eccitante doveva ancora arrivare, e fu quando tu, dopo essere giunto a descrivere il momento culminante della mia “disfatta” dinanzi agli invasori, ti interrompesti improvvisamente, cambiando totalmente il tono della voce, e, con un sorriso complice, amichevole ed accogliente, mi chiedesti :

“Ora, però, Gigetto, fermiamoci un attimo : secondo te, questa storia deve veramente finire così? Dovrai rimanere ormai solo, abbandonato e schiavo di questi “cattivi”? Oppure, malgrado tutto, ci sono amici preziosi, forti e fedeli che possono venire in tuo aiuto? Tu te ne sei dimenticato perché eri troppo spaventato, ma loro sono lì, a tua disposizione, pronti ad intervenire ; vedi? sono impazienti e scalpitano come cavalli di razza! – e così dicendo cominciasti a muovere fuori dal palcoscenico, uno per uno, tutti i paladini nelle loro dorate armature, facendo in modo che agitassero minacciosamente gli spadoni – ; però non possono entrare in azione se tu non hai fiducia in loro e non li chiami! Basterebbe anche un semplice fischio! Allora, coraggio Gigetto : vogliamo provare? – e senza frapporre ulteriori indugi, cominciasti a fischiettare un allegro richiamo, al quale facesti seguire, con voce squillante, un perentorio ordine : “avanti, miei prodi paladini, a me! I feroci Saraceni hanno invaso e conquistato il castello di Gigetto, hanno fatto ammalare il nostro piccolo amico, toccandolo con le loro scimitarre avvelenate ed ora vogliono farlo schiavo! Adesso lui sta invocando il nostro aiuto : orsù, Orlando, Rinaldo, Ruggero, Oliviero, correte tutti col vostro re Carlo a soccorrerlo! Aiutiamolo a liberarsi e a guarire dalla malefica febbre che lo affligge, e diamo una terribile lezione ai perfidi nemici che hanno osato attaccarlo!”, e, così dicendo, cominciasti a far salire progressivamente sul palcoscenico i paladini, inscenando una vera e propria battaglia, dove tutti, buoni e cattivi, si sfidavano “a singolar tenzone” in modo assai movimentato e pittoresco, mentre tu narravi e commentavi ogni azione con un sorprendente “piglio” da esperto e vivace cantastorie, usando sia l’italiano che il dialetto siciliano, ed ottenendo un effetto così comico ed entusiasmante, che persino nostra mamma fece capolino per po’ di tempo dalla soglia della camera, assai divertita e forse anche commossa dinanzi a quello spettacolo di amorevole complicità fraterna.

Nel frattempo io, col cuore in tumulto per l’emozione, ridevo, esultavo, battevo le mani e saltellavo sul letto, provando un crescente, inarrestabile senso di liberazione, specialmente quando, al culmine di ogni duello serrato e senza esclusione di colpi, uno dei guerrieri “cattivi”, ormai vinto, “volava” fuori dal palcoscenico.

E questo divertimento si protrasse fino a che, in modo sempre più esaltante, i paladini uscirono vittoriosi da tutti gli scontri a ripetizione, e rimasero in campo a fronteggiarsi direttamente, da soli, con intrepida fierezza, i due re in persona, Carlo Magno da un lato e Marsilio dall’altro. Per loro, ricordo che sceneggiasti con grande maestria un lungo ed “epico” duello, dall’esito talvolta incerto ed altalenante, durante il quale i due personaggi, dialogando in dialetto siciliano e vantando ciascuno il proprio valore e la propria invincibilità, si scambiavano terribili fendenti sugli scudi di latta, e si inseguivano anche fuori dal palcoscenico, sul letto, sul cuscino e attorno a me, che ormai ero come “stregato” da quello scenario da favola, dove, grazie alla tua sapiente regia, potevo veder scorrere e dipanarsi, dinanzi ai miei occhi incantati, tutto il groviglio dei miei infantili conflitti.

Poi, ecco l’epilogo trionfale, che, al termine di un sempre più concitato andirivieni di attacchi, contrattacchi, inseguimenti ed altisonanti scontri, vide finalmente il prode Re Carlo aver la meglio sul terribile Re Marsilio, il quale, dopo aver ricevuto un ultimo, tremendo colpo di spadone, finì col precipitare giù dal letto, mentre gli facevi pronunciare un sonoro e comicissimo “poffarbacco!”.

A quest’ultima scena, dopo tanto clamore, seguì un temporaneo silenzio, durante il quale mi guardasti furbescamente negli occhi, cercando di rimanere per un po’ di tempo “serio”, mentre anche io cercavo di fare altrettanto ; quindi, non potendo più trattenerci, cominciammo a ridere e a far festa insieme, dapprima in sordina, poi sempre più fragorosamente, fino a che un’allegria incontenibile si impadronì definitivamente di noi e tu mi venisti incontro, abbracciandomi, accarezzandomi il viso, scompigliandomi i capelli e dicendomi amorevolmente : “ecco Gigetto, adesso abbiamo sconfitto i tuoi nemici ; li abbiamo buttati fuori dalla tua stanza e giù dal letto ; ora sei libero e probabilmente, se proviamo a misurarla, ti è passata anche la febbre, e per di più – guarda un po’….! – è tornato persino a risplendere il sole!”, e, così dicendo, spalancasti le tende della porta-finestra della camera, lasciando che io potessi constatare che, finalmente, dopo tanta pioggia e grigiore, il cielo era tornato sereno e luminoso, mentre all’orizzonte, sul mare, fra stupende gradazioni di colore, si preparava un tramonto rosso infuocato, ed io sentivo assai piacevolmente che ora anche la mia fronte era divenuta improvvisamente più fresca.

Queste sensazioni fecero salire il mio entusiasmo alle stelle ; ma il momento sicuramente più bello e culminante della tua “magica” invenzione teatrale doveva ancora dispiegarsi in tutta la sua più completa pienezza : e ciò avvenne quando, smorzatasi un po’ la nostra rumorosa allegria, tu mi invitasti dolcemente ad aiutarti a rimettere a posto, nello scatolone, il teatrino con tutti i suoi pittoreschi personaggi, dicendomi, con voce fattasi un po’ più pensierosa : “vedi, caro Gigetto, dopo esserci tanto divertiti, ora dobbiamo avere molta cura di questo teatrino, con tutti i suoi valorosi guerrieri, sia amici che nemici, perché su questo palcoscenico, oggi, noi abbiamo recitato in modo umoristico una piccola scena, che forse potrà ripetersi altre volte nella tua vita, in modo assai meno scherzoso, magari quando sarai più grande.

Anche in futuro potrà capitarti, talvolta, di sentirti in pericolo e di essere circondato proprio da scuri e misteriosi “Saraceni” : naturalmente non come quelli che hai visto nel tuo teatrino, bensì assai diversi e meno riconoscibili, ma pur sempre “invasori” pericolosi e terribili. Come i “Saraceni” sono, infatti, tutte le paure che disturbano la tua tranquillità, di giorno e di notte ; come i “Saraceni” sono tutte le tristezze, le preoccupazioni, le insicurezze che qualche volta ti tormentano ; come i “Saraceni” sono le persone che non ti capiscono, che hanno qualcosa contro di te, che ti fanno dispetti ed ingiustizie ; come i “Saraceni” sono le malattie e tutto ciò che ti toglie il sorriso ; e come i perfidi “Saraceni”sono infine anche le tue stesse “rabbie”, cioè i cattivi sentimenti che talvolta puoi provare nei confronti di altre persone, vicine o lontane che siano, o perché ti hanno fatto dei torti, oppure perché tu stesso li hai fatti a loro : e questi cattivi sentimenti sono taglienti e contagiosi come le scimitarre avvelenate con le quali i Saraceni del tuo teatrino, poco fa, ti sfioravano, dandoti la febbre!

Però, devi sapere che dentro di te, nella parte più bella e più nobile di Gigetto, cioè nel tuo cuoricino : sai, quel piccolo muscolo di cui ti ho spesso parlato, che batte senza fermarsi mai e ti permette di respirare, di essere allegro, di camminare, correre, saltare, divertirti con gli amici, voler bene alla mamma, a papà (anche se ora è lontano, alla guerra), a tuo fratello, a tutte le persone che ti sono care, e che ti fa ascoltare, toccare, odorare, gustare tutte le cose più belle della natura, e, soprattutto, ti fa vedere spettacoli meravigliosi, come questo mare e questo tramonto di adesso, che neppure il più grande pittore del mondo riuscirebbe a dipingere così bene ; dunque, in questo tuo cuoricino, così pieno di preziosi tesori, ci sono, a difenderti dai terribili Saraceni, anche i nobili Paladini, capeggiati dal loro intrepido Re Carlo : amici forti, valorosi ed invincibili (hai visto già come sanno combattere!), sempre pronti ad intervenire ogni volta che ti trovi in difficoltà ; loro sono le guardie del tuo cuore, che vegliano su di te, come angeli custodi, senza mai dormire o distrarsi ; sono la tua forza segreta, sulla quale potrai sempre contare, ogni volta che ti sentirai insidiato dai terribili Saraceni ; per questo non devi mai dimenticarti della loro presenza : tutte le volte che la paura si insinuerà dentro di te, non scappare ; basterà che tu ti fermi un attimo a pensare e ti metta a “fischiettare”, anche soltanto col pensiero, e loro accorreranno immediatamente in tuo aiuto, si disporranno attorno a te e formeranno un quadrato, solidissimo come una fortezza, che nessun nemico riuscirà mai a superare! Forse i Saraceni rinnoveranno periodicamente i loro attacchi, ma ricordati che Re Carlo, con i suoi Paladini, li respingeranno sempre, credimi!”.

Non so, mio carissimo Giacomo, quante persone, in questo mondo così povero di Maestri, abbiano avuto il privilegio di avere un fratello come te! Quando tu, al termine della tua magica invenzione teatrale, mi rivolgesti quelle parole impregnate di appassionata saggezza, io avevo solo cinque anni e forse non ero ancora in grado di cogliere, come avrei fatto in seguito, tutta la profondità del messaggio in esse contenuto, anche se ne “respirai” avidamente il “profumo” ; tuttavia la splendida immagine del mio cuore di bimbo “presidiato” dagli invincibili paladini di Re Carlo – questa sì! – entrò impetuosamente nella mia mente già fin da allora, rimanendovi scolpita, assieme al tuo discorso, come una granitica verità in grado di sfidare il Tempo : ed in quel momento, ascoltandoti incantato, ebbi, per di più, la nitida sensazione che tu avessi trasformato anche me in un piccolo, nobile paladino, pieno di nuova dignità e di intrepido coraggio. Questa sorta di “investitura”, a conclusione di quell’indimenticabile pomeriggio di tanti anni fa, fu certamente il Dono più grande che tu lasciasti dentro di me, come un luminoso invito ad affrontare sempre, “a viso aperto”, la dialettica della Vita, nel suo dinamico alternarsi di Luci ed Ombre, di Bene e Male, di Gioie e Dolori.

Da quel magico giorno in poi io sentii che tu, ormai, saresti divenuto dentro di me come il mitico Re Carlo, antico tutore dell’Occidente contro i Saraceni : il saggio custode della mia pace interiore, l’ indomabile animatore e guida dei miei Paladini, l’ amorevole conforto di tutti i miei smarrimenti, il mio grande Amico Difensore, pronto ad accorrere e farsi trovare puntualmente presente tutte le volte che all’orizzonte della mia esistenza si fossero profilati “invasori” ostili e minacciosi ; ed in effetti, al di là di tutte le mie infantili fantasie, in questo ruolo così splendidamente rassicurante tu sei sempre rimasto, poi, per tutto il resto della vita che abbiamo trascorso insieme.

Mille immagini e mille ricordi, variamente distribuiti nel tempo, si affollano oggi nella mia mente, a testimoniare questa tua indimenticabile vicinanza. Si tratta di veri e propri “quadri della memoria”, che sempre continueranno ad illuminare, confortare ed abbellire il cammino futuro che ancora mi rimane da seguire. Per questo motivo, adesso, desidero rievocartene almeno due fra i più significativi, superando, in verità, l’imbarazzo di una scelta assai tormentata, dato che si tratta di “distillare” solo alcune gocce dal fiume impetuoso ed entusiasmante che tu hai lasciato nella mia vita.

Ecco, ad esempio, subito, il primo, grande ricordo che risale al lontano, ma terribile inverno di guerra del 1943, quando io avevo ormai quasi sette anni. L’otto Settembre di quel fatidico anno ci aveva colti a Scarperia, ivi sfollati dopo molti mesi di tormentato pellegrinaggio da quando avevamo abbandonato la nostra Sicilia, risalendo la penisola per ricongiungerci con parenti che abitavano in Toscana. Scarperia pullulava di Tedeschi, ormai divenuti invasori : proprio come i mitici Saraceni del mio fantastico mondo di bambino! Li vedevo continuamente marciare o camminare per le vie del paese, armati fino ai denti e torvi nelle loro divise minacciose, mentre il passo pesante e cadenzato dei loro stivali risuonava nelle mie orecchie come un lugubre segnale di pericolo, che in certi momenti mi faceva correre precipitosamente a casa, a cercare protezione dalla mamma e soprattutto da te ; per non parlare, poi, dell’orrendo frastuono degli automezzi militari, in particolare quelli cingolati, che transitavano spesso senza tregua per la strada principale del paese, diretti verso il passo del Giogo, dove, a quanto sentivo dire dai grandi, i Tedeschi stavano costruendo minacciose fortificazioni. Vedevo la gente aggirarsi seria ed accigliata, e spesso mi capitava di ascoltare discussioni nelle quali si parlava sempre più insistentemente di un devastante “fronte di guerra” che presto sarebbe giunto fino a noi, concentrandosi soprattutto sui monti vicini a Scarperia. Queste notizie mi lasciavano fortemente turbato e riempivano la mia immaginazione di “oscuri mostri” in agguato, dai quali soltanto la mamma, e soprattutto tu, mio intrepido Re Carlo, potevate rassicurarmi.

Poi, ecco che un giorno, improvvisamente, ti vidi un po’ diverso dal solito, forse un po’ preoccupato, malgrado tu facessi finta di niente e conservassi la tua abituale e rassicurante premurosità, specialmente verso di me. Quella tua velata ansia, tuttavia, mi meravigliava e mi insinuava una sottile e dolorosa nota di perplessità, fino a che, una sera, mentre tu e 17 la mamma credevate che io dormissi, mi accadde di assistere ad un vostro concitato colloquio, dove tu parlavi di un’imminente chiamata alle armi che da un momento all’altro sicuramente ti sarebbe pervenuta, ma alla quale, come dicesti con forza, non avevi alcuna intenzione di rispondere, dal momento che sentivi di non avere nulla da spartire né con i Fascisti né ancor meno con i Nazisti. “Piuttosto – ti sentii dire – me ne vado sul Giogo, fra i Partigiani! So che lassù si combatte per una causa meravigliosa, che io condivido totalmente, con tutto il mio cuore : la Libertà. Per difenderla prevedo che ci saranno battaglie durissime e sanguinose ; io probabilmente non ucciderò mai nessuno, perché sento che il linguaggio delle armi non mi appartiene ; tuttavia mi renderò utile lo stesso in altri mille modi perché quel sublime ideale trionfi”. A queste tue parole, la mamma ribatteva con una nota di intensa commozione nella voce, cercando di suggerirti cautela, prudenza e riflessione, mentre, contemporaneamente, esprimeva tutta la sua paura per i gravissimi rischi che questa tua decisione avrebbe potuto comportare per la tua stessa incolumità, della quale, soprattutto in assenza di nostro padre, ella sentiva di dover essere amorevole custode e difenditrice ; ma, al di là di tutto, se ti fosse successo qualcosa – e qui finiva col prorompere in un pianto dirotto – non si sarebbe mai perdonata, fino a morirne di crepacuore, di averti permesso di partecipare a questa folle guerra. Al pianto della mamma ricordo che rispondesti subito con un tenero abbraccio ; ma le parole che pronunciasti poi, le ho ricostruite nella mia memoria come uno dei più nobili e maturi insegnamenti che un giovane di appena venti anni potesse esprimere : “Lo so, cara mamma, che tutto sembra tragicamente assurdo e che forse sarebbe meglio nascondersi fino a che la guerra non sia finita : ma oggi, vedi, dobbiamo renderci conto che stiamo vivendo un momento storico veramente decisivo per il destino dell’Umanità, di fronte al quale non sono ammesse fughe di alcun genere. Si tratta di salvare il Mondo da alcuni pazzi criminali, che, convinti di appartenere ad una razza superiore, hanno organizzato eserciti di fanatici e feroci seguaci, con l’intenzione di sottomettere con la forza delle armi il resto del genere umano, soffocando ogni forma di libertà, torturando e uccidendo senza pietà chiunque cerchi di contrastarli per difendere i più elementari diritti dell’uomo. Fermarli è difficile, ma è anche una grande impresa, alla quale è giusto che ciascuno di noi, soprattutto giovani, fornisca il proprio contributo di partecipazione, secondo i propri mezzi, la propria fede e la propria visione della vita, per donare un futuro migliore non solo a noi stessi, ma specialmente a tutti quei bambini, che, come il nostro Gigetto, hanno il diritto di crescere serenamente, in un mondo finalmente libero e pacificato, dove non si sia più costretti a fuggire sotto i bombardamenti o a nascondersi per evitare di essere indagati, arrestati, massacrati e fucilati solo perché sospettati anche del minimo dissenso contro la folle logica della violenza, del razzismo e della prevaricazione! Io penso che anche Papà, se fosse qui, approverebbe ciò che sto dicendo e non avrebbe nulla da obbiettare dinanzi alla mia scelta, perché lui, che è sempre stato un uomo d’onore, la considererebbe come la risposta più naturale ad un sacro dovere!”

Parole chiare, nette, decise, scolpite con lo scalpello di una saggezza che non ammetteva repliche, alle quali nostra madre, pur sospirando, non poté che aderire tacitamente ; ed io, che avevo compreso con molta chiarezza la tua decisione di andare a combattere contro i nuovi, spietati “Saraceni”, da un lato rimasi profondamente turbato dall’idea che presto ti saresti allontanato da casa, ma per un altro verso mi sentii immensamente orgoglioso che tu potessi andare ad affrontare quei terribili invasori, per difendere la libertà mia e di tanti altri bambini come me : proprio come tanti secoli prima, forse, aveva fatto anche Re Carlo con i suoi Paladini.

Ma ecco che, di lì a poco, una mattina di autunno inoltrato, la tanto temuta chiamata alle armi arrivò puntualmente, come avevi previsto, portata a casa nostra da un carabiniere, con l’invito perentorio a presentarsi al Comando entro ventiquattro ore ; e quello stesso giorno, per tutta risposta, malgrado l’inevitabile dolore di nostra madre, decidesti coerentemente di mettere in pratica la tua scelta di partire verso il Giogo, assieme ad altri amici della tua stessa età, anch’essi richiamati alle armi, i quali, come te, avevano deciso di rifiutare quell’ordine. Così verso sera te ne andasti segretamente, con molta circospezione, portando con te poche cose in uno zaino, soprattutto indumenti pesanti, ma non prima di averci abbracciati con intenso affetto e commozione. “Non aver paura, Gigetto, e non sentirti mai solo – mi dicesti, con una tenera carezza – : tuo fratello non sta scappando e non sta abbandonando né te né la mamma ; va sui monti vicini, assieme ad altre persone amiche, per provare, tutti insieme, a mandar via dalla nostra terra questi nemici insopportabili e far tornare finalmente la pace. Pensa che gioia : niente più bombardamenti, niente più armi, niente più pericoli, niente più uomini cattivi, niente più paura, ma solo serenità, tranquillità, sospiri di sollievo, sorrisi, baci e tu che finalmente puoi giocare libero e spensierato, senza rischi e senza che improvvisamente, sul più bello, suoni la sirena dell’allarme! Io vado a dare il mio aiuto perché tutte queste cose, ed altre, si avverino anche per te! E poi, stai sicuro : quando sarà possibile, proverò a venirvi a trovare, magari di corsa, per abbracciarvi, salutarvi e vedere come state : tu aspettami, e vedrai che tornerò, anche se non so dirti di preciso quando”.

Dopo la tua partenza, ricordo che la mamma visse lunghi giorni di ansia e di trepidazione, malgrado cercasse di frenare le sue preoccupazioni per evitare di turbarmi ; vedevo che faceva ogni sforzo per apparire nei miei confronti serena e, talvolta, persino allegra, come se tu ti fossi assentato per una semplice “vacanza”, ma poi la sorprendevo spesso in lacrime mentre parlava concitatamente con alcune vicine di casa, anche esse in apprensione per la sorte dei propri figli più grandi che avevano scelto come te di andare sui monti.

Il tempo scorreva interminabile, reso ancor più penoso a causa delle notizie, tutt’altro che rassicuranti, che circolavano a Scarperia su ciò che accadeva o che sarebbe accaduto sul Giogo.

Eppure, malgrado tutto questo clima di paura, io mi sentivo stranamente tranquillo, perché nella mia piccola mente di allora tu eri ancor più saldamente di prima il mio grande Re Paladino invincibile, che nessun nemico, per quanto terribile, avrebbe mai potuto scalfire ; anzi – pensavo spesso -, erano i nemici stessi che avrebbero dovuto temere il tuo valore e la tua forza, fuggendo spaventati da te! E poi mi avevi detto che saresti tornato a trovarmi, e la tua parola, come una promessa magica, mi rendeva incrollabilmente certo che mai ti sarebbe accaduto qualcosa di male.

E non avevo torto, mio carissimo Giacomo, perché una notte, all’inizio di Dicembre, dopo una giornata che nostra mamma aveva trascorso più agitata del solito, fui improvvisamente svegliato da un brusio sommesso, ma vivace, dove si intrecciavano esclamazioni di gioia, note di pianto, schiocchi di baci, voci commosse, e, aprendo gli occhi, ti trovai accanto al mio letto sorridente, luminoso e forte come una roccia. Ti eri fatto crescere barba e baffi, indossavi un giaccone incerato verde scuro su di uno spesso maglione da sciatore, portavi calzoni alla zuava dai quali sporgevano grigi calzettoni di lana, calzavi pesanti scarponi, e un basco blu scuro completava il tuo abbigliamento, dal quale emanava un gradevole odore di foresta.

Ricordo ancora il grido di felicità e di trionfo – subito smorzato da un invito della mamma a far silenzio – che uscì spontaneo dalla mia bocca non appena ti vidi, ed il tuo forte abbraccio, col quale mi sollevasti di peso dal letto, stringendomi gioiosamente a te! “Eccomi, Gigetto – mi dicesti -, sono tornato come ti avevo promesso! Avevo veramente nostalgia di rivedervi per sapere come state. Lassù dove mi trovo, non è possibile conoscere granché quel che succede “a valle”, ma una cosa almeno è certa : che i generi alimentari scarseggiano, specialmente quelli che fanno bene soprattutto ai bambini. Allora, ecco qui, guarda : ho portato per te e per la mamma questo zaino, pieno di tante cose buone che sicuramente ti renderanno contento”, e, così dicendo, mi mostrasti un grande tascapane che ancora non avevo notato, dal quale traesti, come per magia, dinanzi ai miei occhi meravigliati, pacchetti di gallette, biscotti, scatolette di carne, barattoli di marmellata e di latte condensato, stecche di cioccolata, burro in scatola, caramelle al latte ed altri prodotti dolciari che non avevo mai visto né assaggiato, e me li disponesti sul letto con un grande, affettuoso sorriso che ricordo ancora con intensa commozione. “Avrei voluto portare di più, ma lo zaino era strapieno e i sentieri per scendere dal Giogo a Scarperia sono un po’ difficili, sia per il terreno che per il rischio di incontrare qualche pattuglia tedesca. Ma ormai conosco la zona e so come evitare incontri scomodi. E poi, caro Gigetto, lo sai da dove proviene tutto questo ben di Dio? Assieme ad altri compagni lo abbiamo rubato, pensa, ai nostri nemici, che avevano abbandonato un camion pieno di queste squisitezze dopo un attacco aereo. Quando sono tornati a riprendersi il camion lo hanno trovato vuoto! Ti immagini che rabbia? – mi dicesti ridendo e facendomi l’occhiolino”. “Ma se vi avessero preso?” – sussurrò nostra mamma, con voce tremante. “Forse ci avrebbero fucilato senza tanti complimenti, sai come sono i Tedeschi! Ma noi siamo più furbi di loro, e poi c’erano anche tanti altri nostri compagni armati, di vedetta, pronti ad avvisarci e ad intervenire in caso di emergenza!”. La mamma non poté fare a meno di nascondere qualche lacrima, scuotendo la testa, ma tu rispondesti abbracciandola ed invitandola con dolcezza a non preoccuparsi, perché lassù, ormai, avevi imparato a badare a te stesso, mentre io cominciavo a galoppare con la mia fantasia, pensando a quanti pericoli e fatiche avevi affrontato in modo impavido, con l’intrepida baldanza dei tuoi venti anni, per venire da noi, e, soprattutto da me, per vederci e portarci, come una specie di Babbo Natale guerriero, tutti quei magici regali strappati ai perfidi “Saraceni”! Ed in quel momento si fece strada in me anche la certezza che mentre scendevi dal Giogo, tu non fossi mai stato solo, ma al tuo seguito ci fosse stata, e forse c’era ancora, a far quadrato impenetrabile, l’invisibile schiera regale dei prodi Paladini, di cui mi avevi parlato in quel magico pomeriggio di Mazara, tutti stretti, in eroico corteo, vicino al loro invincibile Re Carlo, fedeli e pronti a difenderlo sino alla morte! E mi parve quasi di sentirne ancora la fiera presenza in quella piccola stanza che improvvisamente si trasformava, nella mia fervida mente di bambino, nel salone di una reggia leggendaria dove si respirava un clima di epiche gesta!

Ma sono soprattutto quei cibi che tu, mio carissimo Giacomo, correndo mille mortali pericoli, ci portasti in quella magica notte, che io sento ancora oggi dentro di me come una delle testimonianze più appassionate e commoventi dell’amore profondo col quale hai sempre “nutrito” la mia vita. Un amore che non esitava dinanzi ad alcun ostacolo pur di manifestarsi in tutta la sua luminosa forza. A quel tempo ero soltanto un povero bambino smarrito dinanzi alla spietata, assurda e devastante guerra dei “grandi”, che non riuscivo a comprendere e che scorreva davanti ai miei occhi turbati come una favola perversa, piena di orchi e di Saraceni mostruosi e terribili. Ma tu, con quei tuoi doni che nutrivano l’anima prima ancora che il corpo, e con la tua intrepida baldanza, quasi ludica e “insolente” contro quelle feroci presenze, in quella magica notte, lasciasti nel mio cuore una grande lezione su come sia possibile, nella vita, trasformare la paura in una nuova, dignitosa e quasi allegra fierezza : un insegnamento che ha accompagnato poi la mia esistenza nei momenti più difficili, e a cui ancora oggi mi trovo ad attingere per sostenere, elaborare e riempire il grande silenzio che la tua scomparsa ha lasciato nella mia vita, mio carissimo Giacomo!

Ma ecco, ora, il secondo, meraviglioso momento del nostro fraterno rapporto che, senza alcun dubbio, occupa, anch’esso, un posto assolutamente privilegiato nella mia memoria e negli strati più profondi della mia anima. Risale a quando ero sedicenne, fra la fine del 1952 ed il 1953. Un anno terribilmente atroce, nel quale fui sul punto di morire a causa di un devastante attacco di meningite tubercolare.

La malattia aveva cominciato a manifestarsi verso la fine dell’ estate 1952, con febbri, disappetenza e cefalee. In quell’anno il mio corpo era cresciuto vertiginosamente di più di venti centimetri. Ero dimagrito molto ; la mia configurazione somatica si era trasformata visibilmente, divenendo longilinea e gratificando un certo mio sottile narcisistico orgoglio. Probabilmente questo rapido balzo di crescita, a quanto si poté ricostruire in seguito, aveva determinato un certo subbuglio sul piano endocrinologico, provocando un’infiammazione ghiandolare, con conseguente manifestazione di stati febbrili. Il nostro medico di famiglia aveva preso un abbaglio diagnostico e, pensando che la mia febbre fosse tifoidea – anche perché vi erano stati alcuni casi di tifo a Firenze –, aveva impostato una cura del tutto inadeguata. Le mie condizioni erano progressivamente peggiorate e in autunno, divenuto sempre più debole e malaticcio, ero stato costretto a dolorose degenze a letto sempre più frequenti e prolungate, che, fra l’altro, mi avevano impedito di iniziare l’anno scolastico (la quinta Ginnasio).

Ricordo ancora con angoscia lo stato di profonda prostrazione che quel “male oscuro” in lenta, inesorabile progressione aveva prodotto dentro di me, senza che nessuna medicina riuscisse a fermarlo. In poco tempo, un terribile mal di testa cominciò a tormentarmi quasi di continuo, suscitandomi, specie nelle ore notturne, sensazioni terribili, dove la sofferenza si intrecciava con fantasie deliranti, al punto che assai spesso, malgrado fossi ormai più “grande”, mi accadeva di pensare che gli antichi nemici del mio mondo infantile, gli spietati Saraceni, fossero tornati nuovamente, implacabili, ad insidiare la mia vita! Talvolta era come se mi sentissi circondato dalle loro ombre misteriose, che si aggiravano minacciose attorno al mio letto, e se riuscivo ad assopirmi, subito il mio sonno veniva invaso da incubi ricorrenti, nei quali quei guerrieri spietati e crudeli cercavano di ghermirmi, urlandomi nelle orecchie tutta la loro ferocia e svegliandomi di soprassalto.

A casa si era diffuso gradatamente un clima di cupa apprensione, ed io ne avvertivo tutta la segreta pesantezza che mi opprimeva senza tregua, anche se i nostri genitori cercavano in tutti i modi di nascondere la loro ansia dietro atteggiamenti premurosi ed affettuosamente incoraggianti. L’amore di nostra madre leniva indubbiamente le mie pene, e la pensosa attenzione di nostro padre, che dinanzi ai miei disturbi aveva addolcito tutta la sua abituale severità, mi era di grande conforto ; ma la terribile prigionia che la mia malattia mi aveva inflitto, aveva cominciato a farmi sentire sempre più solo, come “in esilio” dal mondo esterno e braccato da nemici incontrollabili. Ed era soprattutto questa forzata distanza dalla mia vita abituale che, accanto alla sofferenza fisica, feriva maggiormente la mia anima, facendo vagare sconsolatamente i miei pensieri verso il “paradiso perduto” dei momenti di gioia, vissuti a contatto con gli amici, con l’ambiente scolastico, con la natura e con tutte le occasioni di divertimento “estivo”, fra le quali primeggiavano l’ebbrezza delle gite in bicicletta e le allegre partite di calcio all’Oratorio o sui prati delle Cascine. Molti compagni erano venuti affettuosamente a trovarmi nei primi tempi della mia malattia, ma poi le loro visite, con l’inizio dell’anno scolastico, si erano lentamente rarefatte, fino a cessare, soprattutto quando la causa del mio inarrestabile malessere era divenuta sempre più “misteriosa”: e questo abbandono mi aveva fatto sentire ancor più triste, isolato ed inesorabilmente esposto all’insidia dei miei oscuri nemici “Saraceni”, che spadroneggiavano ormai liberamente nelle mie notti, tormentandomi senza tregua.

In tale desolante quadro di silenzioso, spossante grigiore, solo tu, mio carissimo Giacomo, comprendesti immediatamente il lato più invisibile dei miei tormenti : quello della mia anima, pieno di oscure paure e di malinconici smarrimenti, e mi rispondesti ancora una volta, immancabilmente, come sempre avevi fatto in altri tempi, accorrendo assai spesso a trovarmi, per starmi vicino e confortarmi con la tua presenza e, soprattutto, con la tua parola, che aveva il potere magico di rasserenarmi.

A quel tempo, ti eri sposato da poco con Natalia – che per me era subito divenuta come una carissima sorella maggiore – e vivevi a S. Giovanni Valdarno, dove insegnavi, completando le tue ore di insegnamento anche a Figline Valdarno; ma, malgrado i tuoi impegni scolastici e familiari, sfidavi con noncuranza la distanza chilometrica e le avversità meteorologiche per venire da me, “cavalcando” la tua Lambretta come fosse il cavallo del mitico Re Carlo ; spesso anche Natalia era in sella, dietro di te, come una regale Regina al seguito del suo Re, e la sola vostra presenza bastava a mettere in fuga le ombre dei miei feroci nemici Saraceni. Ricordo con grande commozione che non c’era volta che tu non mi portassi dei piccoli doni per distrarmi dalla malattia : giochi, giornalini, libri divertenti, dolciumi. Un giorno arrivasti inaspettatamente con una piccola radio, “tutta per te, da tenere nella tua stanza, sopra il comodino, per ascoltare musica, commedie, varietà e notizie da tutto il mondo”, come mi dicesti allegramente, sistemando la spina nella presa di corrente e fissando sapientemente al termosifone il filo di rame che fungeva da antenna. E quella fu una sorpresa veramente straordinaria, che, riaprendo una finestra della mia anima all’ascolto delle voci e delle armonie della realtà esterna, ebbe il potere di attenuare notevolmente il pesante senso di isolamento nel quale il mio male rischiava di confinarmi sempre più.

Il tuo profondo amore ed i tuoi doni avevano certamente il potere di respingere gli attacchi delle forze ostili che mi assediavano, ed era come se tu, standomi vicino, costruissi instancabilmente, come un saggio stratega, un “ponte” benefico e confortante fra la mia vita di “malato” e quella realtà esterna, da cui i “nemici” invasori volevano tenermi lontano, e “presidiassi” quel ponte, da Re invincibile, con tutta la schiera dei tuoi eroici Paladini.

Poi gli eventi precipitarono improvvisamente, malgrado il nostro medico curante continuasse a sostenere che bisognava attendere che la malattia facesse il suo “decorso”. Le mie condizioni all’inizio del Dicembre 1952 peggiorarono in modo parossistico, specialmente per ciò che concerneva le dolorose cefalee e gli stati febbrili, fino a che tu e nostro padre, di comune accordo, decideste di rivolgervi ad un altro medico, il Prof. Paolo Cappelli, docente di Patologia Medica all’Università di Firenze, una carissima persona, sensibile e disponibile, dalle qualità umane e professionali veramente rare e suggestive, di cui mi piace fare il nome in questa sede di ricordi, per il grande debito di commossa riconoscenza nei suoi confronti, che ancora reco, indelebile, nel più profondo del mio cuore.

Egli, non appena mi visitò, comprese subito la vera natura del mio male e dopo avere suggerito un’approfondita indagine radiografica, che confermò subito l’infiammazione ghiandolare, mi prescrisse immediatamente una potente cura antibiotica. Tuttavia rimase perplesso fin dall’inizio sulla effettiva forza risolutiva della terapia, dal momento che era trascorso ormai troppo tempo inutilmente dall’inizio di miei disturbi. E questa perplessità la testimoniò affettuosamente più volte, prendendo a cuore la mia situazione e venendo spesso a visitarmi di sua iniziativa, per controllare il mio stato e prescrivermi ulteriori medicine di sostegno.

Ma tutti i suoi dubbi erano purtroppo fondati. All’approssimarsi delle festività natalizie le mie condizioni si aggravarono con acuti stati febbrili, cefalee sempre più insopportabili e la comparsa di “strane” difficoltà respiratorie, tanto da indurre il Professore a chiedere a nostro padre di potersi consultare con un collega, collaboratore del Prof. Cesare Cocchi, famoso pediatra, direttore dell’Ospedale Meyer.

Il consulto, dopo una lunga e minuziosa visita cui i due medici mi sottoposero, sciolse ogni residua speranza e sfociò in una terribile, definitiva sentenza : tutte le mie sofferenze erano da attribuirsi, ormai senza alcuna riserva, ad una grave forma di meningite tubercolare in stato di avanzato sviluppo, la quale rendeva assolutamente inevitabile un immediato ricovero ospedaliero.

Questa terribile notizia fece discendere improvvisamente dentro di me un immenso smarrimento, e mi trovai di colpo come immerso in un desolato e vuoto silenzio interiore, nel quale mi sentii inesorabilmente trasformato in una “cosa” senza significato, senza identità ; un oggetto qualsiasi, senza storia, gettato a casaccio in uno spazio anonimo, incapace di autogestirsi e destinato ad essere manipolato da altri, a loro piacimento, senza potere più esprimere una volontà propria : un corpo-oggetto, del quale e sul quale “altri” avrebbero deciso che cosa fare, a loro insindacabile giudizio. I Nemici mi avevano vinto. Da quel momento in poi sarei stato definitivamente in loro balìa.

Mancavano ormai pochi giorni al Natale : mentre tutto il mondo esterno, attorno a me, con i suoi Presepi, i suoi alberi addobbati, le sue luci, le sue musiche, i suoi festosi brusii, la sua corsa agli acquisti di doni, le sue promesse di bontà, le sue cerimonie religiose e i suoi riti laici, si preparava a celebrare una Nascita, io sentii insistentemente aleggiare su di me un desolato grigiore di Morte.

In casa, nostra mamma e nostro padre, in terribile ansia per il mio destino – anche se cercavano di contenersi -, avevano ridotto al minimo i lieti segnali natalizi di un tempo, limitandoli all’essenziale. La mamma, per devozione, aveva collocato in salotto soltanto una semplice capannuccia prefabbricata, con la Sacra Famiglia, mentre lo spazio destinato all’albero di Natale, che solitamente ero io ad addobbare, quell’anno era rimasto vuoto. Tutto questo accadeva anche perché il Prof. Cappelli aveva consigliato il mio ricovero subito dopo il Natale, data l’urgenza della mia situazione di salute.

Eppure, anche in quella drammatica situazione, dinanzi a tanto “silenzio”, così denso di angosciose attese, ti trovai immediatamente al mio fianco, a confortarmi con tutto il tuo amore, tutta la tua premura, tutta la tua saggezza, e a infondermi quella mirabile forza che emanava da te come un balsamo per la mia anima.

Proprio qualche giorno prima della vigilia di Natale, inaspettatamente, di prima mattina, ti presentasti a casa con un grande albero, col quale subito andasti a riempire lo spazio del salotto rimasto tristemente disadorno. Poi, dinanzi ai nostri occhi meravigliati, lo addobbasti con grande cura, e, dopo averlo completamente avvolto con fili dove erano fissate moltissime lampadine, inondasti la stanza di luminosi colori, come se provenissero dalle stelle d’un planetario, che ebbero il potere di interrompere magicamente il grigiore opprimente che incombeva sulle cose e sull’anima di noi tutti. Ed in quel momento, seguendo rapito ed attonito l’accortezza, la sapienza e la delicata leggerezza dei tuoi gesti, riaffiorò nella mia memoria, prepotente e inarrestabile, avvolgendomi in un intensissimo vortice di commozione, il ricordo di quella lontana, magica giornata, quando, in Sicilia, montasti il teatrino dei Pupi per sceneggiare al tuo piccolo fratello ammalato il mitico scontro fra i Paladini di Re Carlo e i malvagi Saraceni : adesso eri nuovamente lì, dopo tanti anni, a proteggermi nuovamente dal ritorno di quegli antichi, irriducibili nemici!

“Ascolta Luigi – mi dicesti, come in una inaspettata eco alle mie emozioni e ai miei pensieri – : io sento e comprendo tutta la tua angoscia e tutta la tua paura, e se potessi, con tutto l’amore immenso che ho per te, mi assumerei io il carico di tutte le tue sofferenze, ma ricordati sempre che in Ospedale si va per guarire, per liberarsi da tutto ciò che ci tiene prigionieri del Male, per rinascere a una nuova vita ; una vita migliore, più libera, anche a prezzo di un dolore fisico e morale che può abbatterci ed allontanarci temporaneamente dal senso dell’esistenza. Tu devi avere fiducia in questa Rinascita : per questo non ho potuto accettare che la tua, la nostra casa rimanesse triste e spoglia, senza un segno che ricordasse anche a noi che è Natale, che è tempo di nascere, di sperare, di credere nella possibilità di una vita più bella ; una vita che può esistere veramente, credimi, specialmente quando ce la conquistiamo attraverso il coraggio di sostenere e respingere in modo intrepido la sofferenza che talvolta ci infliggono le forze del Male. E poi, stai sicuro, Luigi, io non mi staccherò un solo istante dal tuo fianco, e saremo in due ad affrontare ogni difficoltà!”

Oggi, a distanza di 67 anni, sento ancora tutta la potentissima forza che emanava dalle tue parole, come un flusso inarrestabile e palpitante di vita, e ricordo la benefica sensazione di serena compostezza che si diffuse dentro di me, come una dolce carezza di pace.

Il giorno dopo S. Stefano, in una grigia e piovosa mattinata, accompagnato dai nostri genitori, mentre tu e Natalia ci seguivate in Lambretta, fui portato in ambulanza all’Ospedale Pediatrico Meyer, e 27 ricoverato in un grande padiglione circolare destinato alle malattie infettive, dove mi ritrovai in un letto accanto ad altri letti, forse una ventina, tutti disposti a cerchio attorno ad un grande termosifone che troneggiava al centro della sala, circondato da tavolini coperti da panni bianchi, sui quali erano collocate cartelle cliniche, materiale vario di infermeria, scatole di medicine e flaconi di flebo. Nei letti vidi altri ragazzi, alcuni più piccoli, altri della mia stessa età, con i quali sentii immediatamente che tutti eravamo accomunati da un medesimo, triste destino di malattia, tutti con una traccia di smarrimento nello sguardo sperduto altrove, e tutti con i volti protesi verso una silenziosa e trepida attesa di guarigione, come tante colombe, figlie dell’aria libera, desiderose di volare verso l’Infinito, ma intanto prigioniere in una grigia gabbia opprimente, che faceva dimenticare le ali. D’intorno, un brusio discreto e sommesso di genitori e parenti, anche essi in pensierosa e ansiosa attesa.

Dopo che infermiere dai modi energici e sbrigativi, ma dai volti bonari e sorridenti mi ebbero sistemato nel mio letto, si fece improvvisamente silenzio, i genitori furono invitati ad uscire, ed io fui subito visitato dal Prof. Cocchi, con una équipe di medici al seguito. Ascoltai parole incomprensibili, che diagnosticavano il mio stato e prescrivevano terapie per me misteriose, mentre venivo assalito dalle emozioni più varie e contrapposte, dove si alternavano le paure più terrificanti, il rimpianto per il mondo esterno che avvertivo sempre più lontano, il desiderio di fuggire da quella prigione che sentivo estranea ed ostile, la speranza di guarire il più presto possibile per riconquistare la mia libertà, la disperazione per la “disfatta” della mia vita.

E di vera e propria rovinosa disfatta si trattò, quando iniziò il ciclo di cura antibiotica mediante dolorose punture lombari, che, praticate quotidianamente, divennero subito per me un vero e proprio incubo che mi perseguitava senza tregua, come l’inesorabile esecuzione di una condanna senza appello.

Ma la malattia, ormai, aveva implacabilmente invaso il mio organismo ; le ombre dei miei antichi nemici mi assediavano, soprattutto di notte, ed era come se mi togliessero il respiro con il loro orrendo ghigno di vittoria. Fino a che una fatidica ed infernale notte, sentii, al di là di ogni immaginazione, che la testa mi stava come scoppiando per il dolore, mentre non riuscivo più a respirare, al punto che mi sembrava di annegare. Alle mie immediate richieste di aiuto, accorsero subito le infermiere e, dopo poco, ci fu un andirivieni di medici, che, constatate le mie alterate condizioni, mi somministrarono farmaci e ossigeno. Poi, di primissima mattina, venne a visitarmi lo stesso Prof. Cocchi, il quale, dopo avere accertato che il mio male si era ormai aggravato, si consulto’ rapidamente con gli altri medici ed io, dopo poco, intuii che avevano preso qualche seria decisione nei miei confronti, il che accrebbe ancora di piu’ la mia angoscia.

Infatti, nel corso della mattinata, prima arrivo’ al mio capezzale un infermiere munito di una borsa di attrezzi da barbiere, il quale, pur trattandomi con molto garbo, mi rapo’ a zero, spiegandomi genericamente che si trattava di una semplice pratica “terapeutica”, che non doveva preoccuparmi. Poi, prima dell’abituale orario di passo, arrivarono i nostri genitori, sul cui viso vidi dipinta una tensione ansiosa che, malgrado ogni sforzo, essi non riuscivano a nascondere, pur dicendomi che la loro visita “fuori programma” era dovuta al fatto che durante la notte mi ero sentito male e le infermiere avevano poco prima telefonato a casa per invitarli a venire in ospedale per “confortarmi e rassicurarmi”.

Poi, arrivasti tu, con Natalia, e fu subito come un prepotente raggio di luce nelle tenebre del male. Ricordo che mi facesti una carezza sulla fronte e mi prendesti la mano, stringendola come in un gesto di intesa, mentre accennavi a un lieve sorriso, nel quale, tuttavia, mi parve di intravedere una nota di intensa e commossa preoccupazione, come quella che avevo intravisto nei nostri genitori . Poi mi dicesti, con fare rassicurante, che entro breve tempo mi avrebbero portato a fare una radiografia alla testa – per questo mi avevano tagliato i capelli (!) – per cercare di individuare l’origine dei disturbi che mi avevano tormentato durante la notte. In quel momento realizzai che c’era qualcosa che mi veniva nascosto, ma decisi di accettare questa spiegazione, specialmente quando mi invitasti, con voce amorevole come un soffio balsamico, che dovevo cercare di stare tranquillo, perche’ tu saresti stato sempre al mio fianco, senza lasciarmi un solo istante.

E cosi’ fu, mio carissimo Giacomo. Quando, poco tempo dopo, arrivarono due infermieri sconosciuti che mi fecero indossare un camice bianco, mi adagiarono su una lettiga con le ruote, e cominciarono a spingerla attraverso un dedalo di corridoi, tu non ti staccasti mai dal mio fianco, tenendomi per mano, mentre, in triste processione, ci seguivano anche i nostri genitori e Natalia. Poi, giunti dinanzi a una grande porta, mentre voi venivate invitati ad attendere, io fui introdotto in un ambiente che subito si svelo’ essere una sala operatoria. Li’, con mio grande terrore, malgrado i medici, muniti di mascherine, cercassero di rassicurarmi, fui anestetizzato e sottoposto a una difficile e delicatissima operazione alla testa, mediante trapanazione, di cui porto ancora la cicatrice indelebile.

Non ricordo che cosa accadde durante quel terribile evento. Ricordo soltanto che prima di essere anestetizzato avvertii la tragica e allucinante sensazione di essere destinato a morire, senza alcuna via di scampo, mentre un nodo di pianto incontenibile si impadroniva di me. Poi, fu il buio abissale della perdita di ogni senso.

Non so giudicare quanto durasse la mia permanenza in quell’Inferno di tenebre ; so che ad un certo punto cominciai a percepire nuovamente un po’ di luce e mi accorsi che ero ancora vivo e che il mondo attorno a me riprendeva forme e colori. Ma, soprattutto, la sensazione, che oserei definire stupenda, di essere ancora vivo me la trasmise la tua mano, che stringeva la mia, mentre tu mi guardavi e mi sorridevi con intensa commozione.

Ebbene, mio carissimo Giacomo, sara’ stato un pensiero che molti razionalmente potrebbero giudicare infantile e destituito di ogni logica, ma io, in quel preciso momento, fui intimamente convinto – e ancora oggi, a 84 anni, devo confessare che per qualche via misteriosa continuo ad esserlo -, che tu, tenendomi per mano, mi avessi trattenuto in vita, impedendomi di volar via, di svanire nel mistero impenetrabile dell’Aldilà… Troppe e ancora tante erano le cose che avevamo da dirci e da vivere insieme perche’ tu potessi lasciarmi andare : e in quella stretta di mano, ferma e vigorosamente amorevole, io sentii che attorno al mio letto erano tornati a schierarsi tutti i Paladini che tu avevi richiamato ai tuoi ordini per proteggere e salvare nuovamente la vita del tuo Gigetto, questa volta non per gioco, come era accaduto undici anni prima…

Pensiero sublime, che non solo mi accompagno’ per l’intero anno che trascorsi al Meyer, il quale, poi, finalmente, si concluse col mio ritorno a casa, guarito, a festeggiare, tutti insieme, in letizia, il Natale successivo al mio ricovero ; ma pensiero anche indelebile, che ancora oggi accompagna e accompagnera’ sempre il Tempo che mi rimane da vivere, dove tu, mio meraviglioso fratello, fai e farai continuamente sentire il profumo della tua presenza, assieme alla tua Natalia, mia carissima cognata e tua diletta sposa, che da poco ti ha raggiunto, quasi centenaria. E la tua sara’ sempre la presenza di un Maestro speciale, unico e indimenticabile.

 

 

CANTO PER L’ASSENTE

 

Anche se non ci sei piu’,
continui a esistere
nel ricordo di quelli
che ti han visto.
Ad essi quasi vado chiedendo
di poterti ancora riscoprire
nello specchio dei loro occhi.
Anche se non sei piu’ qui,
continui ad esistere
negli improvvisi bagliori
che mi fanno sobbalzare
osservando altri corpi,
nei quali riconosco
in questo il tuo sguardo,
in quello la tua voce,
in quell’altro il tuo profilo.
Continui a stare qui, integro o quasi.
Per me eri tutto
e tutto era parte di te :
la terra, l’acqua, l’aria,
gli uccelli, i fiori,
come se il mondo fosse un tuo vestito.
E ora mi manca solo
una parte di quel vestito,
perche’ continui sempre ad essere
l’intero paesaggio che contemplo,
con l’aria, con l’acqua, la terra,
e i fiori e gli uccelli,
ma senza involucro umano :
la sola parte di te
che mi resta assente.

 

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...andiamo lì dove nulla aspetta
e troviamo tutto ciò che sta aspettando.


Pablo Neruda, Ricorderai.



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