C’è una musica che per molto tempo ha riempito la mia mente ed accarezzato la mia anima, fin da quando, giovane studente universitario, l’ascoltai per la prima volta alla fine degli anni Cinquanta : é un concerto per chitarra e orchestra, in quattro movimenti, del musicista spagnolo Joaquìn Rodrigo (1901-1999), intitolato “Fantasia para un Gentilhombre”, che l’Autore compose nel 1954.
Si tratta di una struggente suite di brani, che riecheggiando, in un suggestivo intreccio, motivi di danza, canzoni, romanze e temi celebrativi ispirati a compositori spagnoli vissuti fra Seicento e Settecento, si propone di rievocare i fasti e le sontuosità della corte di Spagna, in un’epoca dove l’antica grandezza del potente Impero di Carlo V e Filippo II era ormai al suo declino e rimanevano soltanto i ricordi sbiaditi degli ideali che un tempo avevano alimentato l’orgoglio del nobile “gentilhombre” spagnolo : primo fra tutti l’ideale cavalleresco.
I motivi della memoria e della nostalgia per uno stile di vita fondato sull’onore e sulla appassionata dedizione a quei valori che innalzano l’umana esistenza pervadono tutto il concerto e sono soprattutto racchiusi nella raffinata trina contrappuntistica che caratterizza il dialogo fra l’orchestra e la chitarra solista, mediatrice di delicate rievocazioni, nelle loro differenti ma complementari sonorità, ricche di toccanti chiaroscuri.
Quando, nel 1958, mi incontrai per la prima volta con questo concerto, al Teatro Comunale di Firenze, avevo ventidue anni ed ebbi la rara fortuna di ascoltarlo in una stupenda ed indimenticabile esecuzione di Andrès Segovia, che mi lasciò letteralmente “folgorato” e mi fece sentire subito quella musica, così potentemente insinuante, come una parte stranamente familiare di me stesso, quasi come se vi fosse contenuto un arcano richiamo a qualcosa che mi era “noto” e profondamente “mio”, ma, nel contempo, ancora “sconosciuto”.
Ricordo ancora il particolare e sognante entusiasmo che mi pervase dopo quel “magico” ascolto : mi trovai come “inebriato” da quella preziosa cascata di note che aveva improvvisamente riempito il mio cuore e la mia mente d’armonie dolcissime e, nello stesso tempo, fiere ed appassionate, e dopo quel giorno mi sorpresi spesso a sussurrare dentro di me qualche passaggio del concerto, specialmente il secondo movimento, che ha per titolo “Espanoleta y Fanfare de la Caballerìa de Nàpoles”.
Esso rappresenta uno dei momenti più intensi di tutta la suite, dove il dialogo fra chitarra ed orchestra si protende inizialmente verso altissime vette di nostalgico lirismo, evocatore di un passato come ingiallito dal tempo, per poi dar luogo repentinamente ad un inaspettato cambiamento di ritmo, che fra altisonanti squilli di tromba introduce la cadenza di un’altera sfilata di cavalieri, i quali, come fantasmi, si animano e palpitano per brevi istanti in primo piano, come sfiorati da una lieve folata di vento, per poi dileguarsi nuovamente, austeri e solenni, nel nebbioso e mesto scenario della memoria.
Per quasi cinque anni quell’incantesimo musicale risuonò dentro di me, senza che io ne comprendessi appieno la ragione, se non attribuendone il fascino all’ intenso piacere estetico che la composizione aveva suscitato nel mio intimo ; comunque, il mondo di nostalgiche fantasie cavalleresche, che quella musica riusciva ad evocare così mirabilmente nella mia mente di giovane sognatore, entrò sempre più a far parte della mia fervida immaginazione, divenendo un’aspirazione ad un modello da imitare, un invito ad uno stile di vita “cortese”, che mi affascinò e mi coinvolse appassionatamente, fino a diventare un mio reale modo di concepire i rapporti con la vita, con gli altri e specialmente col mondo femminile.
Ma fu soltanto nel tristissimo Gennaio del 1963, a seguito di un evento fra i più drammatici della mia vita, che infine mi si svelò improvvisamente, in un’ondata di infinita commozione, il significato ben più profondo che quella musica aveva rivestito per la mia anima ed il motivo per cui l’avevo sentita fin dal primo ascolto così “mia” : e ciò accadde quando una inesorabile malattia si portò via prematuramente mio padre, ed io rimasi come pietrificato dinanzi a quella brutale separazione, che, per quanto già da tempo prevista, mi colse impreparato a sostenerne il peso.
Il fatto è che il rapporto con mio padre fino a quel momento della mia vita non era mai stato facile, perché contrassegnato da laceranti ambivalenze ed inquietanti chiaroscuri che non ero ancora riuscito ad armonizzare del tutto dentro di me.
Egli, infatti, era sicuramente una delle figure più significative, ma anche più “enigmatiche” della mia giovane esistenza, per la disorientante difficoltà che avevo sempre incontrato nell’ “inquadrare” in modo coerente e rassicurante la sua complessa personalità ; e, per di più, sebbene nel 1961 gli avessi dato la soddisfazione di vedermi laureato a pieni voti e con lode, ed avessi cominciato ad insegnare quasi subito, mi trovavo a non avere ancora le idee completamente chiare sul tipo di considerazione che egli potesse avere di me.
Da un lato c’erano sempre stati il suo rigorismo, la sua severità, la sua nervosa intolleranza nei confronti di tutto ciò che poteva contraddire la sua volontà, il piglio tendenzialmente imperativo col quale egli si relazionava agli altri – tutti lati tipici che io facevo risalire al suo passato giovanile di ufficiale di carriera nell’arma della artiglieria a cavallo durante la prima guerra mondiale, e, successivamente, di capitano di artiglieria nella seconda guerra, in Africa orientale, i quali me lo avevano fatto vivere come un personaggio autoritario, “da caserma”, che spesso, specie quando ero piccolo, mi aveva notevolmente intimorito, per poi, divenuto io più grande, scatenare in me sordi moti di ribellione e di insofferenza, peraltro mai del tutto espressi.
Dall’altro lato, però, c’era in lui anche una dimensione nascosta, misteriosa, remota ed impalpabile, che si esprimeva in una atmosfera aristocratica e galante, come di altri tempi, che emanava dalla sua personalità con sorprendente naturalezza – ricordo i suoi eleganti baciamano alle signore, quasi sull’attenti, con un lieve inchino – e si coniugava con una sorta di romantica e nostalgica malinconia, tenera e protettiva, che rivelava in lui la presenza di una vibrante sensibilità, la quale spesso mi lasciava sorpreso e senza difese, come se egli, improvvisamente, oltre che incutermi timore o rabbia, fosse anche in grado di “sedurmi” e “farmi smarrire” mediante il profondo fascino di un altro personaggio, non più “da caserma”, ma “da raffinato gentiluomo d’altri tempi”, che trapelava dietro la “ maschera” del suo autoritarismo.
Quando si era profilata l’imminenza della sua fine, io non ero ancora riuscito a conciliare dentro di me questi due volti della sua personalità. Essi avevano per anni “danzato” nella mia immaginazione con ritmi alterni e contrapposti, scatenando nella mia anima assetata di amore, di armonia e di chiarezza le più contrastanti passioni e le dialettiche più tortuose, che spesso, specie al termine di giornate in cui il rapporto con lui era stato particolarmente difficile, avevano reso penose e tormentate le mie notti.
In quei momenti, infatti, era come se in me vi fossero, in aspra contesa, due “avvocati” : uno, spietato, sferzante ed implacabile, che condannava senza possibilità di appello le granitiche “durezze” di mio padre ; l’altro, più sensibile, pensoso e “stupito” dinanzi al lato meno visibile del suo carattere, che preferiva non pronunciare condanne, rimanendo in composta attesa di avere altre “prove”, per meglio “capire”.
Per tutta la mia adolescenza l’ “avvocato accusatore” aveva nettamente spadroneggiato nella mia immaginazione, rendendomi fondamentalmente timoroso, nemico e diffidente nei confronti di mio padre , al punto da farmi considerare i lati più “teneri” della sua personalità – ammesso che fossi in grado di intravederli adeguatamente – , come pure “falsità”, o, addirittura, “ridicole messe in scena”, le quali, più che rendermi pensoso, avevano il potere di innervosirmi perché troppo “dissonanti”, come elementi del tutto estranei, dall’immagine che ritenevo l’unica “reale” di lui.
Solo alle soglie della mia giovinezza aveva cominciato a fare qualche timida comparsa dentro di me anche l’ “altro avvocato”, meno impulsivo e più disposto a “comprendere”, a spingersi oltre l’immagine un po’ “manieristica” del padre “sempre in divisa”.
Ma il conflitto rimaneva ancora aperto e ben lontano da una armoniosa e pacifica soluzione : era come se mi fosse sempre mancato un “ponte” per congiungere definitivamente in un’ unica persona i “due padri” che si contendevano in modo sofferto e lacerante le mie emozioni ; e spesso era inevitabile che io mi sentissi dolorosamente colpevole di questa disarmonia.
Mi sono chiesto più volte, al di là di ogni facile spiegazione “edipica”, quale potesse essere stata la causa di quella aspra conflittualità, dove si intrecciavano drammaticamente amore, odio e paura, che soprattutto da ragazzo avevo provato nei confronti di mio padre : oggi posso dire di conoscerne presumibilmente l’origine “storica” ed i risvolti emotivi.
Tutta la mia prima infanzia, per buona parte coincidente con gli anni della seconda guerra mondiale, così complessi e movimentati per la mia famiglia (fuga dalla Sicilia, pellegrinaggio per l’Italia in piena guerra, finale insediamento a Firenze nel 1945), è trascorsa non solo senza la presenza di mio padre, ma addirittura senza che io avessi avuto, paradossalmente, la possibilità di “conoscerlo”.
Egli era nato nel 1898, a Mazara del Vallo ; orfano di padre all’età di 11 anni (il nonno Giacomo, funzionario di Stato nelle Dogane, era morto prematuramente) e maggiore di tre fratelli (un fratello, lo zio Giacomo e una sorella, la zia Anna), aveva dapprima studiato ragioneria ; poi, per alleviare il carico economico che la mamma (la nonna Maria) doveva sostenere per dare un’istruzione anche agli altri figli, aveva deciso di entrare nell’Accademia militare di Trapani, dove, superando un difficile esame, era stato ammesso al corso allievi ufficiali di cavalleria. Aveva partecipato all’ultimo anno della prima guerra mondiale, dopo Caporetto, combattendo contro gli Austriaci sul Montello e distinguendosi fra i più giovani ufficiali che erano stati mandati al fronte. Dopo la fine della guerra, nel 1919, era stato inviato di guarnigione in Libia, a Tripoli, a protezione dei civili italiani dinanzi alla minaccia di rivolte arabe. Lì, frequentando i salotti della borghesia italiana residente in colonia, aveva conosciuto mia madre, appena diciannovenne, che era nata a Tripoli, figlia di un funzionario delle Poste e Telegrafi, il nonno Luigi, di origine piemontese, che si era trasferito in Tripolitania prima ancora che la Libia divenisse colonia italiana, sposandovi una giovane, la nonna Nicoletta, proveniente da una famiglia siciliana di coltivatori diretti. Il nonno, dall’avvento dell’Italia in poi, era passato a dirigere l’ufficio Poste e Telegrafi di Tripoli.
Dopo il matrimonio con mia madre, nel 1922, mio padre aveva lasciato l’esercito, divenendo impiegato di Stato, dapprima nell’ambito delle telecomunicazioni (era, infatti, un abile radiotelegrafista, ottimo conoscitore dell’alfabeto Morse) ; poi, vincendo un concorso per funzionari di Cancelleria giudiziaria, era passato al ministero di Grazia e Giustizia, trasferendosi successivamente in Italia, per ragioni d’ufficio, con tutta la famiglia (nel frattempo, nel 1923, a Tripoli, era nato mio fratello Giacomo).
In Italia egli aveva fatto carriera, fino al grado di Capo Cancelliere, in un susseguirsi movimentato di varie destinazioni, dapprima al Tribunale di Aversa, in Campania, poi a Napoli, quindi a Torino, poi a Novara (dove nel 1936 ero nato io) ed infine, nel 1938 (io avevo appena un anno e qualche mese), al Tribunale di Trapani : sede, quest’ultima, che, data la vicinanza geografica, aveva permesso a mio padre di tornare a vivere, con tutta la famiglia, nella natia Mazara del Vallo, da dove, ogni giorno, comodamente, egli poteva recarsi a Trapani in treno.
Qui io avrei potuto crescere accanto a lui senza problemi ; ma la sua natura fondamentalmente inquieta, nel 1939, quando io, nato nel Dicembre del ’36, avevo solo due anni e qualche mese, lo spinse a prendere in considerazione un’offerta “epocale”, che avrebbe avuto conseguenze decisive per tutti noi, cambiando il corso del nostro destino : si trattava di un trasferimento in Somalia, dove gli sarebbe stata affidata la Cancelleria della Pretura di Chisimaio, una cittadina non distante da Mogadiscio, sulle sponde dell’Oceano Indiano, presso la foce del fiume Giuba, e dove, in sostanza, egli avrebbe svolto funzioni di alto livello direttivo, con un invidiabile trattamento economico.
A Chisimaio, cittadina vivace, attiva e ben curata dallo Stato (così era stata descritta a mio padre), la presenza italiana era molto consistente e, fra l’altro, vi erano rappresentati tutti i livelli scolastici fino al Liceo ; per un’eventuale prosecuzione degli studi, c’era, poi, la possibilità di seguire a Mogadiscio corsi universitari regolarmente riconosciuti dallo Stato ; quindi non vi sarebbero stati, per noi figli, “rischi” di interruzione della scolarità ; a mio padre sarebbe stata assegnata una villetta con giardino e un’automobile, e tutti saremmo andati incontro ad una vita sicuramente agiata.
Dopo essersi consultato con mia madre, con mio fratello (già sedicenne) e con altri parenti più stretti, mio padre, in quello stesso anno, decise di accettare in prima istanza l’offerta di lavoro, riservandosi di convalidarla definitivamente (come poi mi avrebbe narrato mia madre) dopo avere verificato di persona se sussistessero le condizioni reali per un trasferimento di tutta la famiglia in Africa Orientale. Quindi partì da solo per la Somalia, “in avanscoperta”, proprio in un momento che sarebbe risultato tragicamente cruciale per la storia d’Europa, per l’Italia e per il mondo intero.
So che il viaggio in Africa e, soprattutto, la cittadina di Chisimaio ed il nuovo ambiente lavorativo entusiasmarono notevolmente mio padre : possiedo ancora, in preziosi album di famiglia, la documentazione fotografica che egli inviò a Mazara, ed in particolar modo mi è cara una fotografia che lo ritrae sorridente dinanzi alla villetta in stile coloniale assegnatagli dal Ministero, accanto ad una “Balilla cabriolet”, con un “attendente” somalo a fianco.
A quel punto, ci trovammo anche noi in procinto di partire alla volta della Somalia, per raggiungerlo ; ma, proprio quando tutto era quasi pronto, lo scoppio della seconda guerra mondiale spinse il governo italiano a sospendere cautelativamente tutti gli spostamenti dei civili verso le colonie ; ed il provvedimento, dapprima temporaneo, fu reso definitivo quando, il 10 Giugno 1940, anche l’Italia entrò in guerra a fianco della Germania contro la Francia e l’Inghilterra, e l’Africa Orientale, come altre aree coloniali, divenne quasi subito zona di operazioni militari e di scontri fra Italiani ed Inglesi.
A seguito di questi drammatici eventi, mio padre rimase “confinato” in Somalia, lontano dalla famiglia ; in breve tempo, com’era probabilmente consono al suo aristocratico senso dell’onore e del dovere, decise, all’età di quarantadue anni, di rientrare nell’esercito come volontario, venendo assegnato all’artiglieria col grado di capitano e per noi, ma soprattutto per me, che ero troppo piccolo per ricordare qualcosa di lui, iniziò una lunga separazione, che sarebbe finita solo nella Primavera del 1946, quand’egli ritornò in Italia a guerra conclusa, duramente provato da quattro anni di prigionia trascorsi in Kenya, ed io ebbi finalmente, all’età di dieci anni, la possibilità di “conoscerlo” di persona e non più soltanto nelle fotografie del passato o dai racconti aneddotici di mia madre.
Ma se il ricongiungimento di mio padre con la famiglia fu sicuramente un evento felice per mia madre e per mio fratello, non lo fu per me, che avvertii fin dall’inizio la penosa sensazione di trovarmi dinanzi ad un “estraneo” che non riuscivo a “ri-conoscere” come padre, mancandomi un passato di riferimento trascorso accanto a lui; invano, ricordo, mia madre cercava, con la consueta dolcezza, di coinvolgermi nella sua intensa gioia : ma nonostante tutto io presi fin dall’inizio a considerare mio padre come uno “spietato invasore” che si era intromesso fra me e lei, spezzando quella meravigliosa armonia che, durante la sua assenza, si era creata fra noi nel corso dei lunghi anni della guerra, e fu da quel momento che iniziò il tormentato ed intricato percorso del mio altalenante rapporto con lui.
Ricordo che uno dei miei primi “drammi” fu l’essere escluso dal “lettone”, dove “da sempre” avevo dormito con mia madre, per venire “relegato” a trascorrere le mie notti su una scomoda e “solitaria” poltrona-letto, in un’altra stanza. Dentro di me cominciò a prendere forma la netta, ma anche terribile sensazione che il ritorno di mio padre avesse posto fine irrimediabilmente ad un’intera epoca della mia vita ; mi sentii solo ed abbandonato, in preda ad una sofferenza luttuosa che non avevo mai provato prima d’allora, ed i miei sonni cominciarono, in modo sempre più parossistico, ad essere tormentati da paurosi incubi, che spesso mi facevano svegliare atterrito nel cuor della notte, fino a che tutte le mie angosce si raccolsero una sera in un sogno, breve ma tremendo, che è rimasto nitidamente ed indelebilmente insediato nella mia memoria come se fosse recentissimo (ed invece risale a quasi sessanta anni fa !), il cui significato, per molto tempo oscuro, mi sarebbe divenuto chiaro solo in età più adulta.
“Mi trovavo in uno strano letto, che, pur essendo di normale grandezza, aveva le “sponde” che si usano nei lettini per bambini ; era notte, ma la stanza era debolmente illuminata da una luce soffusa, molto spettrale. Ad un certo punto, accanto alla sponda sinistra del letto si “materializzava” un braccio scheletrico, con una mano altrettanto scheletrica, che scendeva lentamente su di me, come a cercare la mia mano per ghermirla ; io venivo preso da un disperato terrore e tentavo di alzarmi per fuggire, ma mi accorgevo di essere come “trattenuto” nel letto da una forza che mi impediva di muovermi. In quel momento, come se qualcuno avesse acceso improvvisamente una radio, si diffondevano nella stanza le note di una canzone cantata da Alberto Rabagliati, di moda nel dopoguerra, che spesso, nella realtà, avevo effettivamente ascoltato in varie trasmissioni radiofoniche. Si trattava di una delle tante canzoni fiorite in quegli anni, che avevano come tema i brevi amori che spesso erano nati fra soldati americani e ragazze italiane, destinati a finire al momento del ritorno di “lui” in patria. Di questa canzone, in particolare, ricordo ancora con precisione la strofa finale, che spesso, pur avendo dieci anni, mi trovavo a canterellare insistentemente dentro di me:
Good bye, milanesina,
I love you.
Ti stringo la manina,
non ci vedremo più.
Dapprima la canzone si insinuava nella scena del sogno in sordina, poi, lentamente, come se qualcuno stesse agendo sul volume della misteriosa radio, il suono si faceva sempre più intenso, fino a trasformarsi in un lacerante ed insopportabile frastuono ; a quel punto il mio terrore diveniva insostenibile e mi svegliavo, piangendo e gridando, completamente in preda alla paura”.
Oggi so che quella canzone, che nel mio terribile sogno di ragazzino lacerò i miei timpani e sconvolse la mia anima, era il “canto d’addio” alla magica mano di mia madre che mi aveva aiutato per anni ad “attraversare” la guerra proteggendomi dai pericoli ; e so anche che quella “separazione” in fondo era necessaria perché, a dieci anni, io potessi cominciare a “ crescere” e a conquistare una mia prima forma di autonomia : ma in quel momento era inevitabile che il prezzo da pagare fosse il duro confronto con la paura, lo smarrimento, la solitudine e l’insicurezza.
D’altra parte, a rafforzare la mia “fragilità” era intervenuta quasi subito anche la severità “militaresca” di mio padre, che non tollerava le mie angosce notturne e le mie esitazioni, e le rimproverava aspramente, col risultato di accentuarle ancora di più, facendomi sentire un “inetto” e una “femminuccia”, malgrado i tentativi di mediazione da parte di mia madre, che lo invitava dolcemente a non trattarmi come un “soldatino” e ad adeguarsi un po’ di più ai problemi della mia età reale ed alla scarsa conoscenza che ancora avevo di lui.
Questi richiami talvolta riuscivano a “smussare” un po’ le spigolosità di mio padre, tuttavia non poterono evitare che, di fatto, in poco tempo, io cominciassi a nutrire sempre più insistentemente nei suoi confronti un irresistibile sentimento di timore misto ad ostilità, che persisteva anche quando non ve ne sarebbe stato motivo alcuno.Invano mia madre, dinanzi alle mie lamentele, cercava di convincermi insistentemente che mio padre “era una persona ben diversa rispetto all’immagine di ‘orco cattivo’ che la mia fantasia aveva costruito” : immancabilmente, tutti i tentativi che ella faceva per modificare la percezione che avevo di lui non riuscivano a smuovermi, anche se soffrivo molto nel trovarmi per la prima volta a dissentire da lei ; avrei desiderato ardentemente darle tutte le ragioni del mondo, ma malgrado ogni sforzo di buona volontà, rimanevo ostinatamente fermo alla mia opinione negativa, limitandomi soltanto, per non “scontentarla” troppo, a prometterle di rivedere la mia posizione solo quando mi fosse pervenuto un “segno” concreto, in grado di “illuminarmi” in modo nuovo sulla complessa personalità di mio padre.
Ma anche se questo caso si fosse verificato, sarei stato, poi, in grado di “capire” veramente ? Avevo, in quel momento della mia vita di ragazzo, un cuore sufficientemente “grande” per accogliere coscientemente anche il lato “meno visibile”, se non addirittura del tutto “invisibile” di mio padre ? Il mio sguardo timoroso di allora, era in grado di “trapassare” quella così problematica “divisa da ufficiale” con la quale egli, ad un certo punto della mia esistenza, era improvvisamente “comparso” ai miei occhi, quasi “ uscendo dal nulla”, turbando e sconvolgendo l’assetto della mia vita ? Ho fondate ragioni per dubitarne.
Da quando, decenne, conobbi “ufficialmente” mio padre, fino al giorno della sua morte, il 24 Gennaio del 1963, trascorsero 17 anni : in fondo non pochi per “capire” ; ma non furono mai del tutto sufficienti perché, quand’egli era ancora in vita, io potessi liberamente seguire, in modo convinto e cosciente, l’invito di mia madre a “comprenderlo”. E’ vero che in quello spazio di tempo si sviluppò la mia crescita fisica, umana e culturale, ed io certamente mi feci più “cauto”nel valutare troppo negativamente mio padre : tuttavia non riuscivo mai a “spogliarlo” del tutto da quella “divisa”che mi impediva costantemente di vederlo con occhi diversi; ne rimanevo irrimediabilmente “prigioniero”, senza scampo.
Ma, mi sono poi chiesto tante volte : ero il solo? Oppure, forse, i “prigionieri”, nella realtà, erano due : io, da un lato, che non sapevo liberarmi dal peso condizionante e persecutorio di un “abito” ; lui, mio padre stesso, che, a sua volta, non riusciva a svestire il suo antico grado di ufficiale di cavalleria, per svelarmi chi in realtà egli fosse?
Come era possibile che in tale “gioco di maschere”, quasi pirandelliano, potessimo dialogare autenticamente fra noi, scoprirci, comprenderci e magari diventare addirittura “amici”?
Eppure, col procedere della mia crescita, dietro il muro di conflittualità che ci separava dolorosamente, io cominciai, ad un certo punto, quasi senza accorgermene, a rendermi conto che mio padre, malgrado tutto, mi “interessava”: forse molto più di quanto la mia animosità nei suoi confronti non lasciasse trapelare. E questa vaga sensazione prese inizio in particolare una volta, alla fine dei miei studi liceali, quando mia madre si lasciò andare a farmi una inaspettata e sconvolgente “rivelazione” sul suo conto.
Spesso, nei momenti di più aspra tensione, le avevo chiesto, con rabbia incalzante, che cosa l’avesse spinta a sposare un uomo così “insopportabile” ; ed ella, con la sua consueta dolcezza, mi aveva sempre risposto in modo smorzato, come pervasa da un segreto pudore che la faceva quasi arrossire, eludendo un po’ la domanda ed invitandomi ad essere indulgente, poiché mio padre “aveva molto sofferto moralmente e fisicamente durante i quattro anni che aveva trascorso in Kenya come prigioniero degli Inglesi, rimanendo duramente ferito nel suo aristocratico orgoglio”.
Ma un giorno che, dopo un ennesimo contrasto, le mie accuse contro di lui si fecero più accese e, forse, anche più offensive del solito, ella, inaspettatamente, ebbe un moto di “regale” indignazione, contestandomi con energia il diritto di “demolire” un uomo che l’aveva amata e desiderata così appassionatamente da farla sentire come una principessa : “da dove pensi – mi disse con un intenso e sfavillante fuoco d’amore negli occhi – che provenisse tutta quella forza che mi ha permesso di affrontare la guerra con incrollabile dignità, difendendo da ogni pericolo due figli, e specialmente te, che eri ancora così piccolo e fragile ? Se nei momenti più drammatici non avessi sempre sentito su di me gli occhi di tuo padre che, al di là di ogni separazione e di ogni distanza, continuavano a contemplarmi appassionatamente come il bene più prezioso del mondo, rendendomi orgogliosa di essere me stessa, credi che sarei stata veramente in grado di superare e di farvi superare indenni quell’immane tragedia?”
Poi, senza attendere alcuna risposta da parte mia, cominciò, come rapita dall’ondata dei propri ricordi, a parlarmi con crescente animazione della aristocratica galanteria di mio padre, quando si erano conosciuti per la prima volta ad un ballo, nel lontano 1921 ; del fascino incontenibile che egli emanava nella sua elegante divisa di giovane tenente di cavalleria ; della immensa, magica e traboccante felicità ch’ella aveva provato quando mio padre le si era dichiarato, “scegliendola” fra altre numerose ragazze che lo corteggiavano ; degli emozionanti saluti a sciabola sguainata ch’egli le faceva quando, di pattuglia per le strade di Tripoli, passava a cavallo sotto il suo balcone, alla testa del suo seguito di cavalieri ; del palpitante, splendido ed indimenticabile giorno in cui mio padre, in alta uniforme, si era presentato solennemente a casa, dal nonno Luigi e dalla nonna Nicoletta, per chiederla in sposa, fra la gioiosa eccitazione degli altri sette fratelli e sorelle di mia madre, tutti protesi a “origliare” dietro la porta del salotto…
Ed infine, facendosi repentinamente più seria e quasi abbassando la voce per un moto di intensa commozione, mi narrò di un duello alla sciabola che mio padre aveva sostenuto per lei, “sfidando” un altro giovane ufficiale che aveva “osato” corteggiarla quando lei era già promessa sposa e che, in piena mensa ufficiali, aveva risposto ironicamente all’invito di mio padre a desistere, dicendogli che non c’era bisogno ch’egli si preoccupasse, poichè lei era sicuramente una di quelle usuali “donnette volubili”, come ne esistono tante al mondo. Mio padre, su tutte le furie, aveva reagito schiaffeggiando pubblicamente il collega e poi lo aveva ferito, per fortuna in modo leggero, nello scontro “ufficiale” che ne era seguito dopo qualche giorno, con tutti i crismi del classico duello d’altri tempi, alla presenza di padrini e testimoni, malgrado mia madre, in lacrime, lo avesse scongiurato di rinunciare.
Dopo questo drammatico episodio – che era valso a mio padre un processo militare (poiché a quei tempi i duelli erano ufficialmente vietati, ma, d’altra parte, si era considerati “vigliacchi” se si cercava di evitarli) e otto mesi di arresti nella fortezza di Siracusa, nonchè un profondo senso di colpa nei confronti dell’avversario, col quale, peraltro, egli si era riconciliato quasi subito, andandolo a trovare in infermeria – , mia madre, spaventata da una vicenda di cui tutta Tripoli aveva parlato e dall’irruenza passionale di mio padre, ch’ella attribuiva anche all’influsso dell’ambiente militare nel quale egli si muoveva, aveva posto la condizione ch’egli lasciasse l’esercito, se veramente l’amava e voleva sposarla. E mio padre aveva accettato di rinunciare alle armi, pur di non perderla : per questo motivo, dopo il matrimonio con lei, nel 1922, aveva rassegnato le proprie dimissioni dall’esercito, intraprendendo la sua nuova carriera in campo giudiziario.
Quando mia madre mi rivelò questi suoi emozionanti, ma anche meravigliosi ricordi, ancora profondamente attuali e palpitanti nel suo cuore, facendomi rimanere letteralmente incantato ad ascoltarla, io avevo 18 anni e lei 55 : eppure, in quel momento fu come se lei si fosse trasformata in una splendida adolescente in fiore, mia coetanea, che, con maliziosa complicità, mi stava parlando di un suo grande amore, desiderosa di condividerne le emozioni con me, a questo punto non più figlio, ma caro “amico” e “confidente” ; e gliene fui intensamente grato.
Ma il lato senza dubbio più“strano”di quello straordinario momento fu la percezione improvvisa e del tutto inaspettata che io ebbi non solo del racconto di mia madre, ma anche dell’altro protagonista di quell’ amore appassionato di cui ella mi stava narrando : cioè di mio padre. Mi sembrò, quasi in un magico gioco di specchi, di conoscere tutto da sempre, come se anche egli stesso mi avesse già raccontato, a sua volta, la sua storia d’amore con mia madre, svelandomi di colpo il lato nascosto, sognante, nobile e passionale della sua personalità. Fu una sensazione fuggevole ed impalpabile, che allora non riuscii né a “trattenere” a lungo dentro di me, né a comprendere pienamente, pur nella gioia profondissima che provai in quegli attimi.
Solo otto anni dopo, questa arcana emozione mi si sarebbe svelata in tutta la sua commovente pienezza : e ciò avvenne pochi giorni prima che mio padre si spegnesse, quand’egli, una sera, ormai allo stremo delle forze, mentre gli ero seduto accanto per assisterlo e per scambiare con lui qualche parola di conforto, cercò improvvisamente la mia mano, me la strinse come per salutarmi e mi disse, con un sorriso pieno di mestizia : “ sai, Luigi, penso che io e te dovremmo parlare un po’ di più ; ci sono ancora tante cose che sarebbe bello scambiarci, proprio come questa stretta di mano … Se guarisco cercheremo di farlo, vero ?”.
Purtroppo, quel dialogo che anche io avrei desiderato iniziare subito, con tutto il mio cuore, non potè mai aver luogo poiché mio padre spirò qualche giorno dopo ; ma quale meravigliosa e folgorante rivelazione mi trasmise, fra le lacrime, dopo tanti anni di tensioni e di dolorosi conflitti, quella magica ed indimenticabile stretta di mano !
Fu come se quello struggente contatto, che per la prima volta infrangeva una crudele barriera, avesse improvvisamente creato, fra me e mio padre, proprio il magico ponte che da anni cercavo ardentemente nella mia anima ; ed in un turbinio travolgente di emozioni incontenibili, sentii con lampante chiarezza che io e lui ci eravamo “da sempre” parlati, forse senza che ce ne accorgessimo, come se fra noi fosse esistito costantemente un sotterraneo richiamo fra opposti, in una sorta di doppio “registro” di comunicazione : quello “cosciente”, caratterizzato da tutte le conflittualità che fin dal nostro primo, lontano “incontro” avevano tormentato il nostro rapporto, rischiando di tenerci sempre distanti, e quello “inconscio”, più segreto, sottile, impalpabile, ma profondamente insinuante, tramite il quale mio padre aveva fatto fluire in me, al di là di ogni contrasto, la linfa più preziosa della sua personalità, cioè la sua natura più intima di aristocratico gentiluomo, permeata di squisita sensibilità, di senso dell’onore e di cavalleresche nostalgie ; quel lato “misterioso” del suo carattere, ch’egli aveva sempre tenuto nascosto dietro il rigore autoritario della sua divisa di ufficiale, forse per difenderlo dall’avvilente insidia della crudeltà di un mondo che, dopo due guerre, una più atroce dell’altra, lo aveva lasciato come una superba aquila dallo sguardo impregnato di vette e di lontananze, dolorosamente ferita ad un’ala.
Avvertii che questa corrente di vibranti richiami e di profondissime armonie che emanava da mio padre aveva sempre accompagnato, malgrado tutto, la mia crescita come un mirabile “basso continuo” ; e solo allora mi fu perfettamente chiaro, fra l’altro, il significato del mio intenso “innamoramento” per quel concerto di Joaquìn Rodrigo, intitolato “Fantasia para un gentilhombre”, che ormai da qualche anno risuonava prepotentemente dentro di me, seguendo quasi quotidianamente la mia vita con la sua fiera e sognante dolcezza : quella era la musica di mio padre, il segreto messaggio che proveniva dalla sua anima, che io, a 22 anni, avevo appassionatamente raccolto senza che ancora ne conoscessi l’origine.
La scoperta di queste remote e toccanti “consonanze”, dopo un lungo passato di laceranti e dolorose “dissonanze”, fu come una meteora che fece improvvisamente irruzione nella mia vita, ad illuminare e a dare finalmente significato al confuso groviglio di emozioni contrastanti che avevo per tanti anni provato verso quel “misterioso” ufficiale, magro, stanco, dallo sguardo profondo ed un po’ malinconico, che, ancora in divisa coloniale, era entrato nella mia esistenza in un lontano giorno di primavera del 1946, quando io, trepidante ed intimorito ad un tempo, l’avevo visto per la prima volta alla stazione di Firenze, mentre scendeva dal treno, accolto dal festoso e commosso tripudio di mia madre e di mio fratello.
Come in un quadro antico, dove, nel corso di un appassionato restauro, comincia a svelarsi gradatamente la preziosa filigrana dei colori originari e delle pennellate tracciate dall’Artista, che il tempo e l’umana incuria avevano confusamente appannato, così, in un altrettanto intenso e commosso“restauro” del quadro della mia memoria, dopo la dolorosa scomparsa di mio padre iniziò a riemergere nella mia mente un magico pulviscolo di tanti commoventi ricordi che, nascosti ed offuscati dalla penombra dei miei conflitti, contenevano, come scrigni preziosi, i lati più segreti della sua personalità, cui io, troppo distolto dal mio rapportarmi a lui con sguardo timoroso oppure ostile, non avevo mai dato la dovuta importanza, giungendo persino, talvolta, ad espellerli rabbiosamente dal mio campo di coscienza.
Questi ricordi oggi rappresentano l’eredità più preziosa che mio padre mi ha lasciato ; sono l’espressione del suo fascino remoto, che mi invita ancora, a distanza di tanti anni, come un meraviglioso richiamo concertante, ad essere sempre un sensibile, fiero e cortese gentiluomo, malgrado la scomposta e dolorosa aggressione della spietata grossolanità dei tempi attuali. Un messaggio indelebile, che ormai è entrato definitivamente, da anni, a far parte della mia anima e del mio comportamento, come un valore sublime che alimenta la mia vita ed il mio rapporto con gli altri.
Fra tali segreti e fertili “doni”, che io, forse, non seppi “riconoscere” adeguatamente quando sarebbe stato il giusto momento per accoglierli, mi viene di scegliere almeno quattro episodi assai semplici, ma emblematici, che si collocano in epoche diverse della mia crescita.
I primi due mi riportano ai mesi immediatamente successivi al ritorno di mio padre, quando la sua figura, da me vissuta come autoritaria e militaresca, mi aveva inizialmente turbato ed impaurito ; gli altri due riguardano il periodo in cui frequentavo il liceo e, assai dopo, il mio primo anno d’insegnamento, quando mi ero laureato da pochi mesi.
Nel primo episodio mi torna, nitido nella memoria, un caldo pomeriggio d’estate nel quale io mi ero attardato fin quasi all’ora di cena a giocare a palla nel giardino di due miei amici di scuola, fratelli gemelli, che abitavano in una villetta vicino a casa mia ; ad un certo punto mio padre scese a chiamarmi in un modo che subito io percepii come “adirato”, per cui provai una incontenibile paura ; mentre egli era ancora lontano dal cancelletto del giardino, mi misi a tremare e a sussurrare con voce rotta dal terrore, fra la meraviglia di tutti : “mamma mia, ho fatto tardi ed ora il mio babbo mi picchierà !” (cosa che, peraltro, non era mai accaduta). Ricordo che la mia “ sortita” spinse la mamma dei miei compagni – una bella signora – ad accorrere per rincuorarmi e per dirmi che in verità non c’era alcun motivo per cui dovessi agitarmi in quel modo, dal momento che non le sembrava che mio padre fosse arrabbiato ; tuttavia io rimasi egualmente, per alcuni interminabili istanti, in trepida attesa di chissà quale tremenda punizione, fino a che mio padre non fu giunto presso di noi ; ma egli, in quella memorabile occasione, dopo essersi presentato alla signora, che ancora non lo conosceva, con un lieve inchino, le fece un baciamano con elegante ed aristocratica cortesia, scambiando qualche parola di circostanza con lei e lasciandola, a sua volta, come “paralizzata” dalla sorpresa, fra meraviglia, curiosità ed imbarazzo ; poi mi prese per mano e mi condusse a casa, chiedendomi, con un lieve sorriso, mentre io lo guardavo con timore, ma anche con un improvviso, inaspettato ed immenso stupore che mi aveva letteralmente tolto la parola, se mi fossi divertito, aggiungendo poi, con voce tranquilla e persino affettuosa, che era l’ora di cena e tutti stavano aspettandomi. Che fortuna, ebbi solo il tempo e la forza di pensare, che egli non avesse sentito ciò che prima avevo detto di lui in preda alla paura ! E per la prima volta in vita mia provai in modo assai doloroso, che non dimenticherò mai, che cosa significhi vergognarsi nel covare sentimenti meschini dinanzi ad un gentiluomo : il lato galante e gentiluomo di mio padre, che per la prima volta, in quella occasione, avevo avuto la possibilità di intravedere. Forse, in quel momento avrei dovuto o potuto cominciare a capire almeno vagamente quel che mia madre volesse dire quando mi invitava a superare l’immagine dell’ “orco cattivo” che avevo attribuito a mio padre…Ma ancora era troppo presto per il mio piccolo cuore di bambino…
L’altro episodio, sempre risalente a quello stesso periodo, è rimasto per tanto tempo racchiuso nella mia memoria come una sorta di vera e propria “polveriera” di emozioni equivoche, ruggenti e contrastanti ; fra questo spiacevole “frastuono” interiore, solo il silenzioso e mesto raccoglimento successivo alla scomparsa di mio padre ha portato nei miei pensieri ordine e “giustizia” interpretativa, permettendomi di “vedere” ed “accogliere”, dietro i fatti che mi accingo a narrare, la profonda luminosità del messaggio paterno, che la mia accecante insicurezza infantile di allora aveva invece rischiato di deformare e nascondere.
Quando, agli inizi del 1945, assai prima del ritorno di mio padre dall’Africa, mia madre, mio fratello ed io eravamo finalmente “approdati” a Firenze, andando ad abitare in un gradevole alloggio provvisorio, situato in un quartiere vicino al fiume Arno, io mi ero agevolmente inserito in quinta elementare, ad anno scolastico già iniziato, stringendo in poco tempo amicizia con molti dei miei nuovi compagni di classe che abitavano vicino alla mia casa. Da loro ero stato accolto con affetto e cordiale naturalezza, sebbene fossi “forestiero”. Vi era, però, nel quartiere anche una piccola “banda” di ragazzi, di qualche anno più grandi di noi, “capeggiati” da un sedicenne, che spesso si divertivano a “molestare” e “vessare” i più piccoli con “ordini” e “scherzi” talvolta maneschi e pesanti, sempre seguiti da “feroci” minacce di rappresaglie se le “vittime” avessero osato parlarne a casa o altrove : insomma, un chiaro esempio di “bullismo” ante litteram !
Ben presto, anche io ero entrato nel mirino della “banda”, con l’aggravante di essere “straniero” ; ed anche per me era iniziata una “triste odissea”, che consisteva nel subire umilianti prepotenze da parte dei componenti del gruppo, quali, ad esempio, salutare “rispettosamente” con un inchino e col saluto fascista ognuno di loro quando li incontravo ; eseguire rapidamente e scrupolosamente senza protestare, da diligente “schiavetto”, piccole commissioni che tutti potevano affidarmi in qualunque momento ; cedere immediatamente, senza obbiezioni, la mia colazione ad uno di loro, se per caso fossi stato “intercettato” mentre andavo a scuola ; inginocchiarsi dinanzi al “capo”in qualunque momento, se costui lo avesse ordinato …., ed altre vessazioni dello stesso tipo. Fortunatamente non vi erano richieste di denaro, date le ristrettezze del dopoguerra, che non concedevano ancora “paghette” a noi bambini.
Le dure regole che la banda imponeva non venivano comunque applicate continuamente, ma “a sorpresa”, mediante “blitz” improvvisi ; e questo fatto creava periodicamente un clima di insicurezza, che spesso offuscava la gioia di giocare e di muoversi liberamente per le strade del quartiere, specialmente in quelle maggiormente frequentate dai nostri “aguzzini”. Io, in particolare, come ultimo arrivato, mi sentivo un po’ “sperduto”, senza “protezione” e totalmente “anonimo” e “senza radici” dinanzi a questa situazione per me del tutto nuova, e sebbene i miei compagni avessero fatto ormai l’abitudine ad essere periodicamente “tiranneggiati”, considerando la cosa spensieratamente, come un evento quasi folcloristico o “iniziatico”, dinanzi al quale non restava che attendere di crescere per liberarsene, quanto a me avvertivo profondamente l’ingiustizia di questa continua minaccia e mi trovavo spesso a fantasticare che un giorno avrei compiuto grandi azioni eroiche, quasi da “cavaliere errante”, sconfiggendo quegli spietati nemici e ponendo fine a questo pesante clima di sopraffazione. Ma nel frattempo ero obbligato a “subire” senza fiatare e, soprattutto, senza poterne parlare a casa.
Quando avvenne il ricongiungimento con mio padre, nella Primavera del 1946, la situazione non era cambiata ; anzi, all’inizio dell’Estate era persino peggiorata per l’infittirsi delle prepotenze del “branco” , ed io, già duramente provato dai contraccolpi emotivi che il ritorno di mio padre aveva determinato dentro di me, finii col sentirmi sempre più disperato, infelice ed impotente a contenere tutte queste tensioni, pur odiandole e covando nel mio intimo una crescente insofferenza ed animosità verso tutti coloro che me le provocavano.
Ma fu proprio quando le mie angosce avevano raggiunto ormai il loro punto più parossistico che si verificò improvvisamente l’episodio che vide come inaspettato protagonista mio padre.
Un pomeriggio di Luglio – lo ricordo ancora nitidamente – egli mi chiese gentilmente di andargli a comprare delle sigarette nel bar-tabacchi poco distante da casa nostra. Si trattava di una delle tante piccole commissioni che io avevo sempre eseguito con disponibilità, ubbidienza ed anche con orgoglio, poichè per me quegli inviti erano una testimonianza di fiducia nei miei confronti. Questa volta, però, mi trovai improvvisamente disorientato, riluttante ed incerto sul da farsi, perchè, per l’appunto, quello era uno dei giorni fatidici in cui la banda stava spadroneggiando nel quartiere, vessando come al solito i più piccoli, ed io, per eseguire la commissione, avrei dovuto attraversare il territorio del “nemico”, subendo chissà quali pesanti angherie.
Mio padre probabilmente notò subito la “stranezza” particolare della mia esitazione e, contrariamente alle mie aspettative, non mi rimproverò per la mia “pigrizia”, ma, osservandomi attentamente e quasi “leggendo” nella mia piccola anima tormentata con uno sguardo che, con mia grande meraviglia, avvertii inaspettatamente affettuoso, fiero e tenero ad un tempo, andò dritto al segno e mi chiese dolcemente se “fuori” ci fosse qualcosa che mi spaventava. Io, dapprima intimorito dalla domanda e condizionato dal pensiero delle “rappresaglie” della banda se avessi parlato, stavo istintivamente accingendomi a dargli una risposta evasiva, rassegnato ormai a subire il “martirio”, quando improvvisamente sentii che quello sguardo così avvolgente e quel tono di voce così fermo e dolce, mi avevano trasmesso, senza che me ne accorgessi, una sicurezza interiore del tutto nuova ed assai diversa, persino, da quella che avevo provato a fianco di mia madre nei momenti più difficili della guerra : non la sicurezza “passiva” dell’accoglienza, della protezione, e della “soffice” accettazione incondizionata, ma quella più “attiva”, per me del tutto sconosciuta, della forza orgogliosa di poter reagire.
Fu una sensazione fuggevole, ma indimenticabile, della quale mi vergognai subito, quasi arrabbiandomi con me stesso, perchè la interpretai come un grave segno di dipendenza da mio padre ; ma ormai era come se si fosse rotto un clima di omertà, per cui, nonostante l’intenso disagio, mi trovai, pervaso da un moto irresistibile, a mormorare a voce bassa, come se qualcuno potesse ascoltarmi nell’ombra, che “fuori c’erano dei ragazzi più grandi di me, che ormai da molto tempo mi molestavano spesso quando uscivo, tormentandomi con pesanti dispetti”.
Dopo questa “confessione” mi sentii stranamente più libero e leggero, come se mi fossi finalmente scrollato di dosso un peso insostenibile ed opprimente ; ma nel contempo mi preparai anche a ricevere una risposta sprezzante da parte di mio padre, pensando che sicuramente egli mi avrebbe dato del vigliacco e della “femminuccia”, esattamente come in quel momento stavo facendo io, contro me stesso, in preda ad un lacerante conflitto.
Ma, al di là di ogni più nera previsione, il comportamento di mio padre fu invece ben diverso. Egli sorrise, mi guardò con grande tenerezza, mi fece una carezza lasciandomi totalmente attonito e poi, senza chiedere ulteriori spiegazioni, mi disse : “Vieni, andiamo insieme, ti accompagno io”. A quelle parole io mi sentii come precipitare in un abisso di vergogna, pensando istantaneamente a quanto mi avrebbero deriso tutti – e, primi fra tutti, quelli della banda – per la mia incapacità di affrontare con coraggio e a viso aperto gli ostacoli ; avrei voluto dire a mio padre che non c’era bisogno della sua presenza, che potevo farcela da solo ; ma, contemporaneamente, avvertii anche un altro tipo di sensazione, che entrò dentro di me come un flusso repentino di lava incandescente che incendiava di nuova forza la mia anima : era la forza combattiva del cucciolo del leone, che può guardare intrepido il nemico perchè ha accanto a sè l’energia terribile, magica ed invincibile del Padre !
Questa “spinta” del tutto inusitata finì col prevalere in quel momento su ogni altro ostacolo, per cui mi astenni da commenti e seguii mio padre, in preda ad un’ emozione che mi toglieva il respiro. Prima di uscire dal portone, egli mi disse : “Vai avanti di qualche passo, fai finta di non conoscermi e non preoccuparti” ; io mi inoltrai tremante e, come mi attendevo, vidi subito la banda al completo, che faceva capannello a poca distanza da casa mia. Quando fui “avvistato”, il capo in persona, un essere massiccio, si staccò dal gruppo e mi venne incontro con un ghigno tracotante, dicendo ad alta voce : “eccone uno, ragazzi ! Ora ci si diverte!” ; ma aveva appena finito di parlare, che mio padre, con un balzo improvviso si frappose fra me e lui, afferrandolo per un orecchio ed obbligandolo a piegarsi per il dolore ; quindi, con una voce tagliente come la lama di una spada gli disse lentamente : “questo bambino non è “uno” qualsiasi, ma si chiama Luigi ed io sono suo padre, di ritorno dalla guerra. Ricordati che da questo momento in poi, tu e tutta quella banda di vigliacchi smidollati ai tuoi ordini gli dovrete rispetto, e se vengo a sapere che ancora osate molestarlo, farete i conti con me e vi assicuro che saranno guai molto seri per tutti voi…! Adesso toglietevi di torno !”, e solo al termine del suo breve, minaccioso discorso che non ammetteva repliche, mio padre lasciò la presa e rimase con le braccia incrociate, fermo come un rupe, ad osservare freddamente il capo che, pallido ed in silenzio, senza accennare la minima reazione, era ritornato verso il gruppo massaggiandosi l’orecchio indolenzito. Fu evidente che tutti erano rimasti profondamente confusi, frastornati e intimoriti dall’attacco improvviso di mio padre : un padre ch’essi non conoscevano e che mai, forse, avrebbero immaginato così aggressivo ; sta di fatto che, dopo un breve conciliabolo, il gruppo si allontanò con un sommesso borbottio di disappunto e di rabbia, cambiando strada, mentre io, in disparte, imbarazzato e vergognoso, benedissi il cielo che in quel momento, data l’ora canicolare del primo pomeriggio, non ci fosse anima viva in giro, perché, nuovamente, mi si era riaffacciata la paura di essere deriso ; tuttavia nel flusso altalenante dei miei sentimenti, non potei fare a meno di sentirmi anche fiero ed orgoglioso di avere proprio “quel” padre, anche se egli, in altri momenti, mi intimoriva così pesantemente.
Solo quando tutti furono scomparsi dalla nostra vista, mio padre si girò verso di me, e, con un lieve sorriso, mi porse la sua mano che io afferrai in preda ad un vero tumulto interiore, sentendola forte come l’acciaio, ed insieme ci avviammo verso il bar-tabacchi. Là, in quel giorno che ormai era destinato a divenire totalmente straordinario ed indimenticabile, mi attendeva un’altra sconvolgente sorpresa : poichè egli, dopo avere acquistato le sue sigarette, ordinò, senza che io me lo aspettassi, due coni gelato, uno per me ed uno per sè, invitandomi a scegliere il gusto che più mi piaceva.
Ed io che, a quel punto, non sapevo più in quale mondo mi stessi muovendo, mi trovai poco dopo, come in un sogno, a tornare a casa al fianco di mio padre, gustando insieme a lui il miglior gelato della mia vita, senza peraltro essere in grado di comprendere se in quel momento era lui ad essere “disceso” verso di me, oppure se ero io ad avere avuto la possibilità e la forza di “salire” un po’ di più verso di lui. Ricordo però chiaramente che durante quel tragitto fui preso da una immensa commozione nel cuore, perchè in quel momento così intenso mi tornò nella mente, non so come, il ricordo di quando, appena qualche anno prima, mia madre, in occasione delle nostre “discese” mensili da Scarperia a Firenze per riscuotere il sussidio di guerra, comperava, per me e per sè, una pasta dolce che consumavamo gioiosamente insieme. A quel tempo mio padre non c’era, non lo conoscevo e, forse, mi ritenevo un po’ “orfano”, fragile ed esposto a mille pericoli, anche se tutelato dall’amore materno ; ora ch’egli era tornato, quel “dolce” rito si era come magicamente riproposto, questa volta con lui, ma in uno spirito del tutto nuovo.
Mentre mia madre, in altri memorabili tempi, mi aveva aiutato ad attraversare le brutture della guerra tenendomi teneramente per mano e trasmettendomi attraverso quel contatto tutta la forza del suo amore e della sua limpida fede, adesso era mio padre che mi prendeva quella stessa mano quasi per “completare” l’opera di mia madre, iniziandomi, a sua volta, all’intrepida energia del cavaliere che affronta i draghi : così i miei occhi di bambino tentarono di vedere e di “leggere” il susseguirsi concitato degli eventi di quella giornata.
Ma, forse, il fiume di bellezza che mi aveva repentinamente inondato in quel giorno particolare era ancora troppo potente perchè la mia piccola anima potesse riceverlo adeguatamente ; per cui, infine, quel movimentato contrappunto di sentimenti del tutto nuovi e contrastanti, vissuti con lo smarrimento della “prima volta”, lasciò dentro di me uno strano groviglio emotivo, che intrecciandosi con le ambivalenze che in quello stesso periodo mi trovavo a vivere con il versante autoritario della personalità paterna, non fui ancora in grado di “sbrogliare” correttamente.
Solo dopo tanti anni di lenta “distillazione”, quando ormai mio padre non c’era più, quella che la mia anima di bambino decenne aveva vissuto allora come una tempesta non del tutto comprensibile mi si sarebbe svelata come uno splendido segno di luce : in quell’indimenticabile giorno, infatti, mio padre mi offrì come una “nuova” identità, una “legittimazione sociale”, per la quale, da quel momento in poi, io non sarei stato più soltanto un bambino qualsiasi, ma una “persona”, con un proprio posto nel mondo e con una una propria dignità cui si doveva il massimo rispetto ; e questa nuova certezza era il dono più “cavalleresco”, grande e generoso che egli mi aveva fatto, difendendomi da chi mi voleva trattare come una “cosa”. Un dono di particolare ed indelebile efficacia, se mi soffermo a pensare, fra l’altro, che dopo quel giorno non ebbi più alcuna molestia da parte del gruppo dei balordi ; ma non è certamente solo questo il senso più profondo di quei meravigliosi accadimenti, che ancora oggi, al solo pensarvi, incendiano di commossa riconoscenza il mio cuore ….
Quanti ricordi e quante proposte di vita provenienti da mio padre affiorano inaspettatamente nella mia personalità, a distanza di tanti anni dalla sua scomparsa ! L’eco della “Fantasia para un gentilhombre”, la “sua” musica dentro di me, è come un richiamo senza fine, che continua e continuerà sempre a risuonare negli strati più profondi della mia anima, invitandomi a coltivare i sentimenti più alti verso la Vita e la Natura!
Non posso dire che mio padre avesse uno spirito francescano, perchè non era un “umile” ; ma oggi posso affermare con grande convinzione e commozione che era un uomo profondamente nobile, con un rigorosissimo senso dell’onore, che incuteva rispetto soprattutto perchè egli, per primo, pur nel suo carattere imperativo, rispettava tutto ciò che aveva valore, bellezza, non era banale ed era in grado di “toccarlo”nell’intimo, valicando i confini della sua “divisa”, dentro e dietro la quale vi era un cuore delicato e sensibilissimo.
Queste considerazioni mi fanno venire in mente il terzo, straordinario episodio della mia vita con mio padre, che, al di fuori di ogni orizzonte “formale”, “ufficiale”, “galante” o “combattivo”, mi rivelò la sconfinata delicatezza e la misteriosa, sorprendente generosità della sua anima. Si tratta dell’amore puro e del tutto spontaneo e disinteressato che nacque in lui, prepotente, per un piccolo cane che per quattro anni, quando io frequentavo il Liceo, allietò la nostra casa, morendo poi tragicamente investito da un’auto.
La cara bestiola, un “meticcio” grigio-nero, simpaticissimo, di piccola taglia, che aveva molto del maltese, ci era stato regalato da una signora, nostra conoscente, socia della Società Protrettrice degli Animali, che lo aveva trovato abbandonato per la strada, ancora quasi cucciolo di cinque mesi circa. Inizialmente mio padre era stato duramente contrario a questa “adozione”, ritenendo che la presenza di un cane in casa sarebbe stata fonte di confusione, di sporcizia e, soprattutto, di distrazione eccessiva per me, che dovevo studiare ; per non parlare, poi, della “schiavitù” di doverlo portare fuori per i suoi bisogni …. Poi, però, egli aveva finito col cedere dinanzi alle nostre insistenze “appassionate”, specialmente a quelle di mia madre, facendosi tuttavia promettere solennemente, con un atteggiamento minaccioso, che la “gestione” del cane sarebbe stata esclusivamente “affar nostro”, dal momento che lui “non intendeva perdere tempo a fare le moine ad un animale”. In caso contrario, avrebbe provveduto lui stesso, d’autorità, a restituire immediatamente il cane alla signora.
Il comportamento di mio padre fu per me, come di consueto a quel tempo, una delle tante conferme del suo autoritarismo militaresco, specialmente quando si presentò il problema della iniziale “incontinenza” del canino, che, come tutti i cuccioli di questo mondo, ancora non aveva raggiunto un buon controllo sfinterico, e, sebbene a turno lo portassimo spesso fuori, specialmente di notte accadeva che lasciasse qualche “traccia”. Il ritrovamento mattutino dei notturni “prodotti” di “Fuffi” (questo era il nome che la signora aveva dato al canino e che noi avevamo mantenuto, anche se il nome si sarebbe adattato più ad un gatto che ad un cane) scatenava furie terribili in mio padre, che spesso avrebbe quasi preso a calci la bestiolina, la quale, terrorizzata si rifugiava sotto i mobili della casa, oppure, tremante, veniva in braccio da me o da mia madre in cerca di protezione. Ricordo che una volta egli giunse persino ad inseguire Fuffi per tutta la casa, brandendo un ombrello e suscitando da parte mia una reazione di rabbiosa protesta che mi portò a frappormi fra lui ed il cane, accusandolo apertamente di essere un uomo odiosamente intollerante e senza cuore. In quell’occasione, assai drammatica, solo l’intervento di mia madre evitò che il destinatario dell’ombrello diventassi io ; mio padre, comunque, mi tolse la parola per qualche tempo, dichiarando che non intendeva più sprecar fiato con gli imbecilli, fossero cani oppure “umani sottosviluppati”, mentre io, da allora, continuando a “rischiare grosso”, feci dormire Fuffi nella mia stanza, provvedendo personalmente, con grande scrupolo, a far sparire quotidianamente ogni traccia della sua incontinenza.
La situazione, nel suo versante più “folcloristico”, si sbloccò quando, nel giro di poco tempo, Fuffi “imparò”, come era naturale che accadesse, a controllarsi ; tuttavia rimaneva sempre tesa, poichè mio padre esigeva che gli tenessimo “fuori dai piedi” il canino, che lo infastidiva con la sua semplice presenza ed affettuosa, simpatica e tenera vivacità, con la quale egli sosteneva insistentemente di non “volere perdere tempo”.
Tutto questo stato di cose si protrasse fino ad un piovoso pomeriggio invernale, durante il quale io ero intento a studiare nella mia stanzetta, con la porta aperta e con Fuffi accucciato su una sedia accanto a me, e mio padre si trovava seduto in poltrona, nel soggiorno confinante con la mia stanza, intento, a sua volta, a leggere un “giallo”, genere letterario di suo particolare gradimento, di cui era formidabile “consumatore”.
Ad un certo punto, improvvisamente, l’impareggiabile Fuffi si alzò, scese dalla sedia, si stiracchiò pigramente e uscì dalla stanza, dirigendosi con determinazione verso mio padre ; io, preoccupato, mi feci subito sulla soglia della camera, in silenzio, pronto ad intervenire se mio padre, che in quel momento non poteva scorgermi, essendo io fuori dalla sua visuale, avesse avuto una reazione di fastidio. Giunto presso mio padre, Fuffi lo “chiamò” delicatamente, appoggiando una sua zampetta sulla sua gamba, scodinzolando e guardandolo. Io mi aspettavo che scoppiasse il finimondo, ma dovetti istantaneamente ricredermi, con grande stupore, poichè mio padre smise di leggere e, rivolto a Fuffi, sentii che gli chiese : “E tu che vuoi, signorino ?”, con una voce, stranamente, quasi divertita ; poi allungò la mano e, con inaspettata delicatezza, gli fece una carezza, alla quale il nostro indimenticabile Fuffi rispose con una tenera leccata, accompagnata da un mugolio di gioia.
Allora mi accadde di assistere, non visto, ad una scena che mi lasciò come “pietrificato”, in preda ad una commovente, intensissima emozione, che non potrò mai scordare. Fu come se dinanzi alla “proposta d’amore” di Fuffi, improvvisamente mio padre si fosse letteralmente “sciolto” ; lo sentii mormorare con una voce tenera, che non gli avevo mai udito :”Ma allora tu, anche se sei così piccolo, sei già un grande filibustiere, eh ?” ; poi, messo da parte il libro, egli, che fino a quel giorno non aveva mai neppure sfiorato il canino, lo prese in braccio sorridendo, ponendoselo sulle ginocchia ed accarezzandolo, mentre Fuffi continuava a scodinzolare, a mugolare e a leccargli le mani.
La scena, così emozionante e ricca di profondissima, delicata affettività, si concluse infine in un tenerissimo quadro, che avrebbe fatto la gioia di un pittore “intimista” : Fuffi, sentendosi a quel punto accettato senza riserve, rimase beatamente accucciato sulle ginocchia di mio padre, mentre mio padre riprendeva a leggere il suo libro, sorridendo dolcemente e sfiorando con mano lieve ed amorevole la testolina del suo nuovo amico.
In quel momento mi sembrò che due anime – quella di un piccolo cane, traboccante di un grande, gioioso bisogno di dare e ricevere amore, e quella di un uomo abitualmente “in divisa”, ma di cuore gentile e segretamente sensibile ai richiami più autentici e più belli della Vita – avessero deciso di incontrarsi, di svelarsi e di accogliersi reciprocamente, scoprendo inaspettatamente un legame, un’affinità, una possibilità di dialogo che, valicando gli angusti confini della parola, andava dritto al cuore, senza maschere.
E mi trovai ad essere quasi “invidioso” del piccolo Fuffi, che con la limpida sicurezza del suo istinto aveva semplicemente ignorato l’austera “uniforme”di mio padre, per “parlare” direttamente al lato più profondamente segreto della sua personalità, in un dialogo autentico ed immediato, che tante volte avrei desiderato ardentemente realizzare io con lui, scontrandomi sempre, però, inesorabilmente, con gli arabeschi barocchi delle mie (o nostre ?) tortuose ed interminabili conflittualità.
Comunque, dinanzi a quella scena, così pervasa di arcane risonanze, mi ritirai in punta di piedi, in silenzio, col cuore colmo di commozione, quasi per non disturbare. Non ricordo per quanto tempo Fuffi e mio padre rimanessero in quella posizione, perché tornai ad immergermi totalmente nello studio, recando nell’anima, però, una serenità ed una leggerezza del tutto nuove, come se mi fossi “liberato” da un segreto tormento ed il mondo attorno a me avesse cominciato a girare in modo più armonioso.
Ma quel senso di gioiosa bellezza era destinato ad accrescersi ulteriormente quando, durante la cena, fra la meraviglia silenziosa e sorridente di tutti noi, vidi mio padre offrire per la prima volta qualche “bocconcino” a Fuffi, che gli si era messo vicino, con molta discrezione, scodinzolando in attesa ; poi, finita la cena, il nostro commosso stupore ormai non ebbe più limiti, quand’ egli, con voce tranquilla, annunciò che quella sera desiderava uscire per fare “quattro passi digestivi” e quindi “ avrebbe provveduto lui a portar fuori il canino”.
Quell’ uscita, del tutto inaspettata, non rimase un caso eccezionale : da quel giorno in poi, mio padre e Fuffi divennero amici inseparabili, che si cercavano continuamente, con reciproca gioia, per fare interminabili passeggiate insieme, per giocare e persino “creare” confusione, come accadde un giorno, in cui mio padre rincasò con in tasca alcune palline di gomma, che aveva comprato appositamente per Fuffi, scatenando una vera festa di latrati, di salti e di corse nel corridoio di casa, cui partecipò anche lui, come un bambino, senza preoccuparsi delle possibili reazioni del vicinato.
Poi, quando venne la Primavera e mio padre, come ogni anno, ricominciò ad usare per i suoi spostamenti la “Lambretta”, che d’inverno teneva custodita in un garage vicino a casa, Fuffi divenne il nuovo, pittoresco ospite dello scooter, poiché mio padre gli insegnò a starsene seduto sulla pedana anteriore, fra le sue gambe, ed iniziò a portarlo quasi sempre con sé, nelle sue frequenti “girate” pomeridiane per Firenze, soprattutto alle Cascine, al Piazzale Michelangelo, oppure a Fiesole, o “fuori porta”, in campagna : girate che egli faceva abitualmente per leggere i suoi libri o giornali all’aria aperta, spesso assieme a mia madre, le quali, ben presto, si trasformarono anche in festose occasioni, che scatenavano puntualmente l’incontenibile e rumorosa gioia del nostro piccolo amico, che aveva imparato subito a riconoscere ed a gradire l’invito ad “andare in Lambretta” anche lui, non appena mio padre ne faceva cenno.
Quante volte, d’Estate, quando in comitiva con amici di scuola mi recavo in bicicletta alle Cascine per giocare a pallone, mi accadde di “sorprendere” mio padre seduto su una panchina, intento a leggere, con l’inseparabile Fuffi accucciato accanto, oppure egli stesso “scatenato” allegramente nel prato, a tirare la palla al canino, che fra mille salti, latrati e piroette, gliela riportava ai piedi !
Piccole scene indimenticabili, che quasi sempre non potevo contemplare senza avvertire una profonda nota di meraviglia, non riuscendo ancora, a quel tempo, a conciliarle con la dimensione autoritaria di mio padre, la quale, d’altra parte, continuava ad essere sempre “in agguato”, pronta a manifestarsi quando c’era qualcosa che urtava la sua suscettibilità.
Solo il nostro piccolo Fuffi, evidentemente, era in grado di neutralizzare quel lato così problematico della sua personalità, trasformando “miracolosamente” mio padre in una persona mite, affettuosa, paziente, generosa, tollerante e persino giocosa.
Assai più tardi, negli anni della memoria, riandando a quel tempo ormai lontano, mi è spesso accaduto di pensare che il nostro piccolo amico a quattro zampe aveva forse avuto lo straordinario potere di far rivivere a mio padre il suo “puer”, cioè la sua infanzia, che la morte precoce del nonno Giacomo, quand’egli aveva appena undici anni, aveva probabilmente interrotto drammaticamente, obbligandolo a crescere in fretta, per nascondere altrettanto in fretta, dentro una severa divisa di giovane ufficiale, il ricordo di quell’età favolosa, troppo presto infranta e oltraggiata.
Nessuno, però, sarà mai in grado di scoprire a quali ancor più profondi sviluppi sarebbe potuto pervenire il magico dialogo fra mio padre ed il suo “ritrovato compagno d’infanzia”, perchè la stupenda missione d’amore attuata in questo mondo dal nostro indimenticabile Fuffi fu brutalmente stroncata, una mattina di Maggio del 1955, da un’auto che lo investì proprio sotto le finestre di casa nostra, uccidendolo quasi sul colpo.
Da romantico pervicace quale continuo ad essere ancora oggi, a quasi settanta anni, mi è sempre piaciuto pensare, nel tempo, con inarrestabile commozione, che quella carissima bestiola, venuta fra noi per irradiare Amore ed ingentilire cuori arcigni, recasse già scolpita nel proprio destino la fatale, ma anche sublime necessità di non poter morire di tranquilla vecchiaia, ma solo inseguendo un sogno d’Amore, ben più adeguato alla sua natura di piccolo, appassionato “spirito amante”.
Da più giorni, infatti, Fuffi, in pieno innamoramento primaverile, era attratto, ricambiato con giocoso entusiasmo, da una tenera barboncina che spesso veniva portata a spasso lungo il viale dove abitavamo, sul marciapiede opposto al nostro palazzo. Quella fatidica mattina, mentre mio padre ed io ci stavamo preparando per uscire, Fuffi trovò la porta di casa semiaperta, poichè mia madre, sul pianerottolo, stava parlando con una vicina, e senza che nessuno se ne accorgesse, si inoltrò per le scale, trovando aperto anche il portone del palazzo. Proprio in quel momento, per fatalità, la barboncina passava sull’altro marciapiede, ed il suo affascinante richiamo indusse Fuffi a correre gioiosamente verso il suo amore, attraversando la strada : là, in un attimo, con un grande, incredulo grido di dolore, egli divenne per tutti noi soltanto un dolce, commovente, mesto ricordo.
Mio padre, dalla camera da letto che dava sul viale, fu il primo ad udire il tentativo di frenata dell’auto ed il guaito lacerante di Fuffi ; e probabilmente fu anche il primo di noi a vedere dalla finestra ciò che era accaduto. Ricordo che, mentre finivo di fare colazione in cucina, lo vidi comparire come un fantasma sulla soglia, pallidissimo ed agitato da un tremito incontenibile, per dirmi con voce spezzata : “Luigi, vieni subito con me, è successa una disgrazia a Fuffi!”; quindi, con passo concitato entrò nel soggiorno a prendere il cuscino di velluto sul quale Fuffi abitualmente se ne stava accucciato, e, in maniche di camicia ed ancora in pantofole, si precipitò forsennatamente per le scale, seguito da me, che ero rimasto totalmente frastornato e smarrito dalla tragica notizia. Insieme corremmo angosciati al centro della strada, dove, attorno a Fuffi, sanguinante ed ormai immobile, si erano raggruppate, impietosite, un po’ di persone mentre il traffico si era temporaneamente arrestato ; e lì, come in un sogno, vidi mio padre inginocchiarsi in silenzio accanto al “suo” canino, raccoglierlo con infinita, tenerissima delicatezza, adagiarlo con ogni cura sul cuscino, per poi avviarsi verso la clinica veterinaria che si trovava a poca distanza dalla nostra abitazione, stringendosi al petto il suo piccolo amico e tutto il suo grande dolore.
Io mi affiancai a lui piangendo e mentre, con passo concitato, ma ormai privi di speranza, percorrevamo insieme il breve tragitto che ci separava dall’ambulatorio, sentii per la prima volta in vita mia che almeno in quel momento fra me e mio padre non c’era più alcuna barriera a separarci, ma ambedue eravamo divenuti due semplici uomini che un dolore terribile aveva strettamente accomunati in un’intensa, disperata e silenziosa “pietas” dinanzi ad un irreparabile evento luttuoso. Questo sentimento di condivisione, così intensamente commovente, fece nascere in me, improvviso ed inarrestabile, il desiderio di circondare col mio braccio le spalle di mio padre, quasi ad abbracciarlo ; e durante quel mesto percorso, superando ogni ostacolo, mi trovai a compiere per la prima volta un gesto indimenticabile di vibrante unione con una persona che più volte avevo temuto, tenendomene a distanza, ma che ora, paradossalmente, sentivo istintivamente di dover fraternamente consolare, pur essendo io stesso duramente affranto. Spesso, negli anni mi è accaduto di pensare che quello, sicuramente, fu l’ultimo indelebile messaggio d’amore che il nostro Fuffi ci affidò, mentre ci lasciava.
Alla mia iniziativa mio padre rispose con mesto ma pronto slancio, stringendosi un po’ di più a me ; girò un attimo il suo viso verso il mio e poi volse gli occhi sul povero Fuffi, inerte sul cuscino, quasi ad indicarmelo, scuotendo sconsolatamente la testa : ed in quel momento io scoprii che egli stava piangendo ; un pianto dignitoso, composto, raccolto ; un pianto quasi senza manifestazioni esterne, ma segreto, profondamente intimo e silenzioso, nel quale mio padre forse racchiudeva tutta la sua segreta sofferenza nel veder svanire una seconda volta quel lato fanciullesco di sé, che il suo piccolo amico gli aveva permesso di rivivere per un breve periodo della sua vita ; un pianto nobilissimo, di amore puro, disinteressato, universale, senza tempo, nel quale, in un attimo del tutto irripetibile, io vidi schiudersi magicamente l’essenza più preziosa della sua anima.
Più di cinquanta anni sono trascorsi ormai da quei dolorosissimi, ma anche sublimi istanti, nei quali un piccolo, indimenticabile cane mi fu maestro di imprevedibili scoperte sui lati più segreti e più profondamente umani di mio padre. Forse soltanto oggi, riandando, commosso, a quel tempo, sono in grado di cogliere, in tutta la sua pienezza, la straordinaria, travolgente forza dell’invito alla Vita ed all’Amore che il dialogo fra mio padre ed il suo canino, nel vibrante intreccio di gioia e dolore, lasciarono dentro di me.
Una proposta affascinante, che io allora “sentii” nel più profondo del mio cuore con grandissima intensità, senza riuscire tuttavia a tradurla ancora in un chiaro costrutto mentale, data la mia troppo giovane età, la quale, attenuatosi lentamente il lutto per la perdita di Fuffi, avrebbe riportato ben presto il rapporto con mio padre a quel fluttuante conflitto fra amore ed “animosità”, che ne aveva costituito da sempre il filo conduttore.
Eppure, negli anni successivi, fino alla mia giovinezza, non mancarono mai da parte paterna altri “segreti messaggi” d’amore, che spesso mi giunsero inaspettati, di sorpresa, a gettarmi in pensosa e dolorosa dissonanza con me stesso (e primo fra tutti il “suo” fiero e nostalgico richiamo musicale di “gentilhombre”); ma io, forse come una specie di “Ulisse fra le Sirene”, pur ascoltandone il suono attraente e misterioso, finivo tuttavia col rimanere sempre “legato” ai miei pregiudizi, che rendevano “sordi” i miei sentimenti, anche se non riuscirono mai ad annullarli del tutto. Solo in seguito, nel forziere della memoria, avrei scoperto quali immensi tesori mio padre mi aveva via via lasciato in eredità, al di là di tutte le mie resistenze e malgrado tutti i suoi autoritarismi.
E proprio qui, fra le più commoventi ed inestimabili “sorprese”, si colloca uno degli ultimi episodi della mia storia con lui, che risale al Giugno del 1962 : un episodio inizialmente di semplice quotidianità, ma di quelli che poi, inaspettatamente, innalzano il cuore ad altezze vertiginose, e che io custodisco fra i miei più cari ricordi con infinita, tenera cura, perché vi è racchiuso un sublime “testamento” ch’egli mi lasciò, come se per qualche oscura premonizione sentisse già l’imminenza della propria fine.
Dopo essermi laureato nel Marzo del 1961, nell’Ottobre dello stesso anno avevo ricevuto il mio primo incarico di insegnamento. Non essendovi cattedre di Filosofia disponibili, ero stato mandato ad insegnare Lettere nella Scuola Media di Fucecchio, un paese distante circa quaranta chilometri da Firenze, per raggiungere il quale prendevo il treno tutte le mattine alle 6.30, ritornando a casa, quando non vi erano ritardi o impegni pomeridiani, verso le 14.30. Normalmente, a quell’ora mio padre era a sua volta rientrato dall’ufficio da poco ed era perciò possibile pranzare tutti insieme.
Il giorno di Giugno cui mi riferisco era uno degli ultimi prima della fine dell’anno scolastico ; mentre, verso le 14, come di consueto, mi trovavo sull’autobus urbano, di rientro a casa dalla stazione, con la borsa sotto il braccio e immerso nella lettura del giornale, passata Piazza Duomo, ebbi improvvisamente la sensazione che qualcuno alle mie spalle mi stesse guardando ; inizialmente non detti peso alla cosa, ma poi, permanendo insistentemente quell’impressione, smisi di leggere il giornale e mi volsi, scoprendo che, poco distante da me, c’era mio padre, che, un po’ in ritardo rispetto ai suoi orari, doveva essere salito sul mio stesso autobus da poco, forse proprio in Piazza Duomo, la fermata più vicina al Tribunale, dove egli era funzionario col ruolo di Capo Cancelliere.
Dritto, nel suo elegante abito gessato a doppio petto, di colore marrone, egli mi stava effettivamente osservando in silenzio, pensoso, con un sorriso lieve, assai particolare e sfumato, dal quale mi sembrò che trasparisse un intreccio di svariati sentimenti, dalla tenerezza, alla protettività, all’orgoglio, alla nostalgia, all’amore. Ricordo che quel sorriso mi stupì, mi avvolse e mi conquistò immediatamente, rendendo subito magico quell’incontro, al punto che mi sembrò, dopo pochi istanti, che il rumore dell’autobus, il brusio degli altri passeggeri, il frastuono del traffico esterno quasi non esistessero più, come se tutto si fosse improvvisamente allontanato nello spazio e nel tempo, per lasciare in evidenza solo la figura di mio padre.
Un po’ emozionato per l’inaspettato incontro, mi avvicinai a lui, sorridendo anche io per salutarlo, ed egli, guardandomi negli occhi, mi strinse il braccio con un gesto di intesa, che percepii più come una carezza che come un semplice saluto. “Ciao Luigi!”, mi disse con tono molto affettuoso, “lo sai che ti stavo guardando con grande interesse? Come passa il tempo, e, perbacco, come sei cambiato! Adesso, anche se sei ancora molto giovane, hai già preso l’aria di un vero signore, austero, intellettuale e riflessivo, proprio come si addice ad un professore…Però…”, e qui assunse un atteggiamento un po’ aristocratico, complice e lievemente ironico ad un tempo, “…per fortuna, grazie a Dio, non hai l’aspetto del modesto impiegato della scuola, che non potrei mai sopportare… ; anzi, mi sembra di rivedere in te, dietro la facciata professorale, quel piglio un po’ fiero, nostalgico, romantico ed appassionato che avevo io, quando avevo la tua stessa età…”. Tacque un attimo, come esitando ; poi, come se avesse deciso di confessarmi un suo segreto pensiero, proseguì con un tono più intenso : “Lo sai che in questo modo mi assomigli molto?… magari in meglio… perché forse sei un po’ meno … impulsivo e … testamatta di quanto lo fossi io, quando ero giovane come te !”. Quindi, fattosi improvvisamente più serio ed assorto, quasi come se volesse parlare anche a se stesso e ad un proprio remoto passato, aggiunse con un sottile velo di amarezza : “Ma per me i tempi erano altri ; tiravano sempre venti di guerra e spesso si doveva indossare la divisa, per inseguire chissà quale vano sogno di gloria…! …col risultato, poi, che da quella divisa era sempre più difficile liberarsi, perché ti rimaneva incollata addosso come una specie di …maledizione, anche se era… affascinante … e ti dava stile e autorità…”, e qui il suo sguardo, per un attimo, vagò verso lontani orizzonti, quasi con una sottile vena di nostalgia ; poi, come scuotendosi e rientrando immediatamente nel presente, riprese a dire con energia : “Ma ora, invece, bisogna pensare seriamente a ricostruire, piuttosto che perdersi ancora dietro chimere che seminano soltanto illusioni, violenza e guerre …!”. Di nuovo tacque ; quindi, subito, come pervaso da un lieto pensiero, riprese a guardarmi, sorridendomi con amorevole orgoglio e mi disse : “Però, fortunatamente mi rimane la soddisfazione di aver lavorato bene, perché ho fatto di te e di Giacomo due educatori, e penso che il mondo, oggi, abbia profondamente bisogno di persone come voi, anziché coltivare nuovi guerrieri …; forse, solo così, dopo tante avventure e disavventure, potrò ritirarmi dalla scena in pace, quando verrà il mio momento …e tu …” aggiunse quasi mestamente, ma sempre sorridendo e stringendomi nuovamente il braccio, “ricordati sempre di tuo padre …”.
Più volte, negli anni, ho benedetto con tutto me stesso quell’incontro eccezionale, che le parole brevi ed assolutamente inaspettate di mio padre avevano sottratto ad ogni quotidiana casualità, per farne un evento da scolpire e conservare nel più profondo dell’anima. Mentre egli parlava sentii progressivamente attivarsi dentro di me un turbinio di pensieri e di palpitanti emozioni, che, con un crescendo inarrestabile, mi crearono una sorta di indefinibile, strano e commosso smarrimento, come si prova dinanzi ad una scoperta in grado di scuotere anche le nostre più solide convinzioni.
Sicuramente, mai prima d’allora egli si era lasciato andare a parlare con me in quel modo così confidenziale e profondamente ricco di chiaroscuri emotivi continuamente cangianti ; mai egli aveva fatto cenno, in modo così potentemente rivelatore ed umano, al “dramma” del suo rapporto con la divisa : quella “divisa” che per tanti anni aveva costituito il più tormentato e cruciale ostacolo alle nostre possibilità di dialogo, e che ora egli mi presentava da un lato quasi come un fastidioso ingombro imposto dai tempi, del quale, forse, avrebbe volentieri fatto a meno, mentre per un altro lato me ne sottolineava l’irresistibile, conflittuale attrattiva che lo aveva reso, infine, un aristocratico “uomo d’azione” ; ma, soprattutto, mai come in quell’occasione, egli aveva confessato in maniera così tenera, fiera e scoperta tutto il suo orgoglioso amore per me e per mio fratello.
Un amore profondamente forte e generoso, in nome del quale, egli, da autentico, nobile “gentilhombre” qual era sempre stato, adesso era disposto a ritrarsi dal suo percorso esistenziale di “uomo d’azione” d’altri tempi, non per dissolversi malinconicamente nelle foschie del rimpianto, ma per sentirsi gioiosamente “rinascere” nei propri figli, nuovi “uomini di pensiero”in un mondo nuovo, alla ricerca di nuovi valori. Questa percezione della “continuità” della propria vita nella “trasformazione” dei tempi e nel susseguirsi delle generazioni era il messaggio più autentico e più struggente che in quello straordinario incontro mio padre fece entrare nella mia anima, come una sorta di mirabile “lascito ereditario”.
In quegli stupendi istanti, nei quali non potevo che essere ascoltatore entusiasta e rapito dallo stupore dinanzi al suo discorso, avvertii come ogni distanza fra noi si fosse ormai come annullata, e sentii potentemente che ambedue eravamo protagonisti complementari di un medesimo romanzo, la cui trama, come un fiume maestoso, scorreva compatta ed armoniosa nel tempo, in una mirabile processione di personaggi, ognuno dei quali, come in un’aurea catena, aveva il compito quasi sacro di trasmettere vita e significato a tutti coloro che sarebbero venuti dopo…
Nel frattempo, l’autobus era giunto alla nostra fermata ed io, dopo brevi attimi, mi trovai come imbarazzato a camminare in silenzio a fianco di mio padre, col cuore in tumulto per l’intensa commozione che in quel momento mi negava l’uso della parola. Giunti tuttavia al portone di casa nostra, mio padre si arrestò, come se si fosse ricordato improvvisamente di qualcosa, e mi disse sorridendo : “Aspetta Luigi ; perché prima di salire a casa non festeggiamo questo nostro incontro con un aperitivo ? Vieni, concediamoci un Martini !” e, con fare molto signorilmente confidenziale ed affettuoso, mi prese sottobraccio, dirigendosi verso il bar-pasticceria vicino al nostro palazzo, dove, prima di ordinare la consumazione, mi guardò in modo quasi scherzoso, chiedendomi : “A proposito, ti va il Martini ?” ; a quel tempo, in verità, non ero ancora abituato agli aperitivi, tuttavia risposi affermativamente, cercando di ostentare la maggiore noncuranza possibile, come se fossi un abituale ed esperto consumatore di alcolici … Mio padre mi guardò divertito, in modo complice e sornione, ridendo, e, dopo avere ordinato, mi propose un brindisi al quale aderii subito, con entusiastico ed orgoglioso slancio : ed in quel momento, mentre osservavo l’aristocratica gestualità da raffinato ed antico “uomo di mondo” con la quale egli maneggiava il suo bicchiere, sorseggiando il suo Martini ed accompagnandolo con la classica oliva verde, fu come se il tempo e la mia memoria si dilatassero, percorrendo una lunga traiettoria a ritroso ; e mi ricordai di un lontano giorno d’Estate del 1946, quando mio padre, dopo avere difeso la mia dignità di bambino di dieci anni, ferita da squallidi prepotenti, mi aveva trasmesso tutta la sua forza, il suo coraggio ed il suo amore, ridonandomi il sorriso della sicurezza, mentre mi invitava a consumare un gelato con lui, quasi a siglare, con un tocco di indimenticabile dolcezza, una indelebile promessa di protezione.
Adesso, dopo tanti anni, il tempo, nella sua magica rotondità, ci faceva nuovamente trovare insieme, questa volta a condividere un brindisi in una cornice del tutto nuova, dove un anziano, ma ancor fiero ufficiale gentiluomo, consapevole del tramonto di un’epoca di divise e di bellici clamori, “consegnava” tutto il proprio antico spirito battagliero ad un figlio, giovane professore, sulla cui crescita egli aveva da sempre silenziosamente ed amorevolmente vegliato, perché questi, a sua volta, continuasse a far vivere tutto quell’ardore in un appassionato progetto di educazione all’amore, alla pace, al dialogo ed alla tolleranza, da proporre in futuro ad altre nuove generazioni di figli.
Momento di immensa solennità, nel quale gli anni, in modo sempre più chiaro, mi avrebbero fatto sentire intensamente, fino alle lacrime, che mio padre, al di là di tutti i contrasti che avevano tormentato dolorosamente il nostro rapporto fino ad allora, in quel giorno irripetibile era entrato anch’egli, per sempre, ormai, a far parte degli indimenticabili, sublimi maestri della mia vita.
Sette mesi dopo quel memorabile incontro, egli sarebbe scomparso dopo breve malattia. Oggi, non mi interessa più cercare di conciliare gli opposti lati della sua affascinante personalità, sforzandomi di costruire “ponti” impossibili ; forse non sarebbe neppure giusto. Mi basta soltanto che egli sia stato così, come io lo ricordo e come ne porto l’immagine incastonata dentro il mio cuore : interlocutore di un dialogo che, se non fu del tutto possibile quando egli era ancora in vita, ora prosegue senza fine nel libro della memoria, con le note lontane della “Fantasia para un gentilhombre”, la musica che egli ha lasciato indelebilmente nella mia anima, e che ancora accompagna i miei giorni.