Mia Madre è stato il primo, meraviglioso Maestro della mia vita, non solo per l’Amore profondissimo ed incondizionato col quale ha accolto ed accarezzato sempre, con tenera discrezione, la mia presenza nel mondo, da lei intensamente desiderata in età non più giovanissima ; ma, soprattutto per la sua inestinguibile forza di trasformare il dolore in sorriso , con naturale, luminosa e spontanea signorilità.

        Questo suo tratto adamantino, che ella ha conservato sempre integro, non solo dinanzi alle sofferenze che la vita non le ha risparmiato, ma anche quando la malattia finale che l’ha condotta alla morte aveva brutalmente malmenato il suo corpo, senza peraltro scalfire la sua anima, è rimasto  per me, negli anni,  come un suadente “invito”, un insegnamento, una traccia da seguire, una porta da spalancare sulla Vita (perché è il sorriso che apre alla Vita !), un antidoto contro ogni paura, una mano lieve, che ancora oggi, mi accorgo, tiene dolcemente la mia , infondendomi forza, pace e speranza, quando talvolta mi avvolge la penombra del dubbio.

        Nella mia memoria, ma, soprattutto, nel mio cuore sono racchiusi ormai indelebilmente alcuni emblematici episodi di quando ero piccolo,  che, a ripensarli nel tempo, hanno trasformato quel sorridente e sognante “tenermi per mano” di mia madre, da semplice gesto amorevole, che le era abituale, a simbolo sublime del legame che poi ha continuato ad unirci per tutta la vita,  ben oltre la sua morte.

        Quando ho cominciato ad aprire i miei occhi di bambino sul mondo, a Mazara del Vallo, la città di mio padre, ho trovato la guerra ; c’era una minacciosa batteria antiaerea montata sul lungomare, non lontano dalla bianca palazzina dove abitavo ; poi c’erano gli sguardi preoccupati dei “grandi” (zii, zie ed altri parenti vicini e lontani), che scrutavano il mare e parlottavano fra loro di possibili attacchi da parte di un “misterioso nemico cattivo”, che poteva, da un momento all’altro, farci del male, oppure distruggerci completamente. Mio padre non c’era “a difendermi”, perché era andato a combattere quel “brutto nemico” in una terra lontana, che si chiamava “Somalia”ed io non avevo avuto neppure il tempo di “conoscerlo”.

         Ma c’era anche tutta la meraviglia di quel mare sconfinato, limpido, solare, pieno di voci impetuose o di segreti sussurri, che si apriva dinanzi a me ed alla mia fantasia di “piccolo viaggiatore precoce”, quale io diventavo, quando mia madre, tenendomi per mano, mi invitava ad ammirare quella immensità, dalla terrazza mediterranea della nostra candida casa, mostrandomi, sorridente e giocosa, qualche vela all’orizzonte, fra il volo arabescato dei gabbiani, oppure parlandomi di una terra lontana che si chiamava “Libia”, al di là di quel mare, con una grande, bianca città di nome “Tripoli”, dove lei era nata : ed io la ascoltavo e la guardavo rapito, come se fosse una creatura speciale, proveniente da un altro pianeta ed amavo attraverso i suoi grandi occhi luminosi tutto ciò che i miei piccoli occhi scoprivano.

        E poi c’era l’incanto degli immensi cieli stellati e della luna, che, sempre da quella magica terrazza, inondavano, anch’essi, di celesti geometrie i miei occhi di bambino sempre stupito e  curioso, e mi facevano desiderare la notte, quando mi addormentavo sorridente accanto a mia madre, accarezzato anche dalle stelle, che continuavo ad intravedere dalla porta-finestra della mia stanza.

        Per non parlare, poi, delle serate indimenticabili, in cui quella terrazza, illuminata dalla luna, si riempiva di voci, di canti e di suoni, quando mio fratello Giacomo, che suonava la fisarmonica,  vi si riuniva con alcuni dei suoi amici, che portavano chitarre e mandolini, per cantare e sorridere tutti insieme, eseguendo canzoni che a me, bambino già istintivamente sensibile al fascino della musica, sembravano come tante dichiarazioni d’amore a quel mondo di favola che mi avvolgeva, specialmente se anche mia madre, come talvolta accadeva, si univa a quel concerto, rendendolo ancora più prezioso e gentile col gioiello arcano della sua voce di fiaba.

        In quei momenti, la “guerra dei grandi” mi sembrava assai distante e mi appariva persino come una “brutta” invenzione di adulti severi, studiata appositamente per “intimorire” e “ domare” bambini troppo vivaci e capricciosi.

        Ma purtroppo non era così. Una mattina d’estate, piena di sole, proprio mentre, fantasticando, correvo, sulla terrazza con la mia piccola automobile a pedali  dopo aver fatto colazione con la mamma, il misterioso nemico di cui parlavano i grandi si fece improvvisamente e terribilmente vivo. Suoni laceranti di sirene, che offendevano brutalmente ogni forma di compostezza e che mi fecero trasalire repentinamente, ne preannunciarono minacciosamente l’arrivo, mentre uomini in divisa grigio-verde, in lontananza, correvano concitati verso i cannoni della batteria antiaerea.

        Subito, mia madre e mio fratello si precipitarono in terrazza per portarmi via ; mia madre mi prese in braccio, stringendomi a sé e dicendomi, un po’ ansimante, di non preoccuparmi, e tutti uscimmo dal retro della casa, fuggendo come colombe smarrite, assieme ad altre persone di case vicine, verso il liceo poco distante (dove mio fratello aveva conseguito la maturità), nel cui sottosuolo era stato predisposto un “rifugio”, con tanti sacchetti di sabbia alle pareti. Molte persone gridavano e si chiamavano a vicenda con voce stridula, terrorizzata e singhiozzante, ed io, in quel groviglio di laceranti disarmonie, conobbi per la prima volta la paura, stringendomi disperatamente a mia madre e nascondendomi fra le sue braccia accoglienti.

        Poi, come ad un improvviso, imperioso segnale, tutto fu silenzio ed il nemico si fece sentire con un cupo rombo di aerei in avvicinamento, al quale subito rispose il terribile fragore delle cannonate che la batteria antiaerea cominciò ad indirizzare contro quella invasione. In quell’assordante uragano di colpi che faceva battere forte il mio cuore e tremare le pareti del rifugio, qualcuno gridò che fra poco sarebbero arrivate le bombe degli aerei a distruggerci, ed io mi sentii perduto e solo, chiusi gli occhi e fui preso da un tremito incontenibile, che mi agitava tutto e mi faceva battere i denti, come se fosse tornato improvvisamente l’inverno.

        Ma ad un tratto, proprio al culmine di quel disperato e scomposto disordine che stava inesorabilmente sopraffacendomi, sentii una mano leggera prendere dolcemente la mia  ; aprii gli occhi e vidi mia madre che mi guardava e mi sorrideva con una strana e straordinaria serenità, come se tutta quella imminente fine del mondo la sfiorasse appena. “Non aver paura, Gigetto – mi sussurrò -, quando la mamma ti tiene  per mano, nessuno  potrà mai farci del male” : ed io mi sentii rinascere, come se la tenera mano di mia madre mi avesse veramente portato assai lontano da quell’inferno di scoppi e di grida, trasmettendomi una nuova, strana energia.

        Poi, come in una magica eco alle parole di mia madre, improvvisamente i cannoni tacquero, mentre il rombo degli aerei nemici si perdeva sempre più in lontananza e, poco dopo, le sgraziate sirene annunciavano la fine dello stato d’allarme, permettendoci di uscire finalmente all’aperto sani e salvi, ma ancora pallidi e tremanti.

        Mazara del Vallo era stata risparmiata dalle bombe, come appresi più tardi dai discorsi dei grandi, perché gli aerei nemici erano diretti su di un altro obbiettivo e si erano limitati soltanto a sorvolare la città : ma nel mio cuore di bambino, da quel giorno terribile, si insediò sempre più solidamente la segreta convinzione che, in realtà, fosse stata la forza del sorriso e della mano di mia madre ad allontanare ogni pericolo, come se quel dolcissimo intreccio d’amore fra le sue e le mie dita avesse creato un  ponte incantato, che mi aveva permesso di abbandonare il territorio della paura per inoltrarmi, sicuro, nell’accogliente giardino della pace.

        Dopo quell’episodio, infatti,  io mi sono trovato ad “attraversare” tutta la guerra sempre a contatto con quella mano meravigliosa che sfiorava la mia, infondendomi amore, speranza, serenità e coraggio : da quando dovetti separarmi, con un infinito senso di tristezza nel cuore, dalla mia amata terrazza “del sole e della luna piena”, perché le autorità, di lì a poco, ci obbligarono a cambiare alloggio, essendo la nostra bianca casa entrata a far parte di una pericolosa “zona di operazioni militari”, a quando arrivò la triste notizia che mio padre era prigioniero degli Inglesi ed era stato trasferito in una terra lontana che si chiamava “Kenya”, a quando, ancora, abbandonammo definitivamente la mia diletta Sicilia e, con essa, l’intera mia prima infanzia, sotto la guida di uno zio, marito di una sorella di mia madre, per “rifugiarci” a Firenze, dove abitavano alcuni lontani parenti.

        Una sorta di “odissea”, irta di pericoli e di disagi, che, nella nostra nuova e scomoda identità di “sfollati”, ci obbligò a “girovagare” per un’Italia tormentata e dilaniata da una guerra che svelava continuamente le sue assurdità incomprensibili ai miei fragili occhi di bambino, e che di lì a poco si sarebbe ulteriormente inasprita, diventando una ancor più crudele “guerra civile”, come sentii che la chiamavano i grandi.

        Eppure, anche questo doloroso “ percorso di guerra”, che non risparmiava  scenari di paura al mio sguardo infantile molto spesso smarrito, mai riuscì a scalfire del tutto le sicurezze che la presenza e l’accogliente mano  di mia madre continuavano a trasmettermi anche nei momenti più difficili.

        In questa nuova fase della mia vita, infatti, mi balza ben vivido nella memoria un altro episodio, che vissi con mia madre nella primavera del 1943 e che considero ancora oggi, con grande commozione, come una delle “favole” più belle della mia vita.

        Eravamo finalmente giunti a Firenze verso la fine del 1942 , ma i parenti presso i quali avremmo dovuto appoggiarci avevano abbandonato provvisoriamente la città, più esposta al rischio dei bombardamenti, per rifugiarsi in campagna. Noi li seguimmo, dapprima a Reggello, un paese distante una quarantina di chilometri da Firenze, dove fummo ospitati provvisoriamente, come accadeva agli “sfollati”, presso una fattoria ; poi ci separammo da loro e, tramite le autorità che seguivano e organizzavano i movimenti degli sfollati, trovammo sistemazione un po’ più stabile in un’altra sede, Scarperia,  un paese sempre in provincia di Firenze, nella campagna del cosiddetto “Mugello”.

        In quel paese, che ancora oggi vado spesso a rivisitare con animo emozionato, ricolmo d’antichi ricordi, mi inserii con entusiasmo, trovando affettuosa accoglienza da parte di altri bambini della mia stessa età e riprendendo in modo più continuativo la frequenza della scuola elementare, che avevo già iniziato a Mazara del Vallo.

        Da Scarperia, mia madre scendeva a Firenze ogni mese, per recarsi alla Tesoreria della Banca d’Italia, vicino a Piazza Duomo, ove riscuoteva una piccola somma che lo Stato erogava ai familiari di tutti i capi-famiglia che si trovavano al fronte, oppure erano prigionieri di guerra, come nel caso di  mio padre.

        In quella occasione, che attendevo sempre con gioiosa trepidazione, la mamma accettava che io “saltassi” un giorno di scuola : mi faceva indossare il vestitino “delle feste” e mi portava immancabilmente con sé, sulla vecchia e sgangherata corriera che faceva servizio fra Scarperia e Firenze ; e quel “viaggio” di circa trenta chilometri, che il decrepito, ansimante autobus impiegava un’eternità a compiere,  assumeva per me una indimenticabile fisionomia favolosa e “ghiotta”, soprattutto perché la mamma, ogni volta, dopo avere ricevuto quel po’ di denaro che le spettava, mi conduceva per mano, con una incantevole aria di sorridente complicità, in una grande pasticceria di Piazza Duomo, dove mi invitava a scegliere una pasta dolce, che concedeva anche a se stessa, fra le tante che, malgrado le restrizioni della guerra, facevano bella e gustosissima mostra di sé, sul banco di quell’elegante ed “aristocratico” negozio. Per dir la verità, io avrei voluto “divorarne” molte, con inarrestabile avidità, ma i nostri pochi soldi, come mi diceva allegramente mia madre, accarezzandomi con tenerezza, non ci concedevano che un solo, piccolo “capriccio”, ed era già molto; per cui, dopo aver scelto con cura la nostra “leccornia”, la assaporavamo a piccoli bocconi, lentamente, perché durasse più a lungo possibile, guardandoci col sorriso negli occhi : ed io, in quel momento, mi sentivo come un piccolo principe, accanto alla mamma più bella del mondo, mentre la guerra era nuovamente lontana …

        Poi, con passo leggermente “vagabondo”, aggirandoci un po’ come “turisti” di tempi di pace  fra la meraviglia degli armoniosi palazzi e delle chiese del centro di Firenze, che sorprendevano la mia immaginazione di bimbo e sui quali mia mamma, tenendomi per mano, non mancava mai di darmi informazioni con cristallina e suggestiva semplicità, ci avviavamo alla piazza da dove la vecchia corriera ci avrebbe riportato al nostro paese.

        Ora, un giorno di primavera, accadde che questo nostro “sognante” passeggiare “fuori dal tempo” dovesse scontrarsi bruscamente con una “realtà” che di colpo ci ricondusse al presente ed alla sua brutale precarietà.

        Giunti alla piazza dov’era il capolinea della corriera, notammo una certa agitazione ; il veicolo era vuoto e i passeggeri, tutti a terra, si accalcavano attorno all’autista, discutendo animatamente con lui e protestando con grandi manifestazioni di disappunto. Dopo esserci avvicinati all’animato capannello di persone, apprendemmo che tutte le corse della corriera erano state sospese, non solo per quel giorno, ma, forse, anche per i successivi, poiché sulla Via Bolognese ( proprio la strada per Scarperia !) era in corso un intenso movimento di mezzi militari e si temevano incursioni aeree.

        Quando realizzai che in pratica saremmo rimasti “bloccati” a Firenze, senza alcun punto di appoggio e nell’impossibilità di dare notizie sulla nostra situazione specialmente a mio fratello Giacomo (che abitualmente, quando noi venivamo a Firenze, rimaneva a Scarperia, impegnato com’era in un piccolo lavoro di disegno tecnico, che svolgeva per conto di un ingegnere del luogo), io cominciai ad impaurirmi e a guardare smarrito mia madre : e la mia paura si accrebbe ulteriormente quando vidi che anche lei era rimasta repentinamente sorpresa, disorientata e perplessa dinanzi a quell’improvviso ostacolo ; il mio cuore cominciò a battere forte, i miei occhi si riempirono di lacrime e mi sentii istintivamente “perduto”, come già era accaduto in Sicilia, sotto il rombo degli aerei nemici. Adesso non ero più il “piccolo principe” della sontuosa  pasticceria, ma, nuovamente, un povero, fragile bambino inerme, tormentato da eventi schiaccianti, assolutamente più grandi di lui…

        Lentamente, la piazza dov’era rimasta posteggiata la corriera  e dove fino a poco prima si erano intrecciate vivaci e rumorose proteste, cominciò a svuotarsi ; le persone se ne andarono borbottando impotenti, e dopo un certo tempo quel luogo  rimase desolato e quasi deserto, attraversato solo da passanti frettolosi ed indifferenti dinanzi al mio personale “dramma”, che attanagliava e faceva battere sempre di più il mio piccolo cuore.

        Nel frattempo mia mamma era rimasta accanto a me in silenzio, seria e tutta immersa nei propri  pensieri ; ed io mi trovai in palpitante e struggente attesa di una sua decisione, mentre la guardavo, cercando di trattenere le lacrime e di leggere nel suo viso e nei suoi grandi occhi un segnale che placasse la mia inquietudine.

        E quel segnale benedetto, infine, non si fece più attendere : vidi ad un certo punto il viso di mia madre rischiararsi, i suoi occhi riprendere la consueta, scintillante vivacità ed il sorriso tornare ad illuminare il suo amorevole volto. “Bene, Gigetto, – mi disse dolcemente – se la corriera oggi non parte, noi ci avvieremo lo stesso verso Scarperia,  a piedi : ci sono ancora tante ore di sole e vedrai che qualcuno, per la strada, ci darà un passaggio”. Così dicendo, con un gesto di incantevole armonia, tirò fuori dalla sua borsetta il bicchierino d’argento che portava sempre con sé, per quando avevo sete (bicchierino che custodisco ancora gelosamente, fra i ricordi più cari e preziosi della mia vita), mi invitò a bere alla fontana che si trovava nella piazza, si piegò un attimo per accomodarmi la camicetta ed il gilet ricamato che indossavo sui pantaloncini corti, mi sorrise con infinito amore, facendomi una carezza sulla guancia ; poi mi porse la sua indimenticabile mano  ed insieme ci avviammo verso la Via Bolognese, per le strade di una Firenze semideserta, dato che ormai si avvicinava l’ora di pranzo : lei nel suo semplice, ma elegante abito primaverile a fiori, io nel mio vestitino festivo, come se stessimo andando a fare una passeggiata “fuori porta”, in una qualsiasi domenica di tempo di pace …e la guerra, in quel momento, fu nuovamente lontana …

        Ma per poco : quando la nostra “passeggiata”ci portò all’imbocco della Via Bolognese, un minaccioso frastuono di autocarri militari, specialmente tedeschi, aggredì subito le mie orecchie, ed io cominciai di nuovo a sentirmi smarrito, anche se, osservando mia madre, la vedevo serenamente determinata a procedere senza esitazione e senza perdere mai il desiderio di sorridermi di quando in quando, stringendomi la mano per infondermi coraggio.

        Quando ci inoltrammo per la strada, mia madre cominciò a fare qualche cenno  a tutte le macchine  e camion  che passavano, nella speranza che qualcuno si fermasse a “raccoglierci” : ma scoprimmo subito che la cosa era molto più difficile del previsto, poichè  la maggior parte dei veicoli erano militari, e le poche auto di“civili” che ogni tanto transitavano, utilizzando lo spazio ristretto che gli autocarri dell’esercito lasciavano libero, tiravano di lungo senza neppure notarci. Più volte accadde che fosse proprio qualche autocarro militare a rallentare, accostandosi a noi ; ma gli autisti in divisa, magari visibilmente inteneriti alla vista di quella strana coppia, “sperduta”e solitaria, forse un po’ fuori dal tempo, si sporgevano dal finestrino per dirci immancabilmente, con dispiacere, che non potevano prendere civili a bordo.

        Nel frattempo, noi continuavamo a camminare, e  lo facemmo a lungo, senza che i cenni  che mia madre ripeteva con dolce ostinazione   ottenessero i risultati sperati. Allora la mia immaginazione cominciò lentamente ad agitarsi con crescente concitazione e Scarperia iniziò ad apparirmi progressivamente come una meta ormai irraggiungibile, che si allontanava sempre di più, inesorabilmente.

        Ad un certo punto, il mio passo, via via che la delusione cresceva assieme all’inquietudine, si fece  sempre più incerto ed esitante ; quel tormento mi apparve sempre più insostenibile ; mi sentii sperduto ed esposto ad insormontabili pericoli ed infine, all’ennesimo, vano passaggio di un camion,  scoppiai  in un pianto dirotto e disperato, fermandomi e rifiutandomi di proseguire, con il cuore in pieno tumulto.

        Al mio pianto improvviso, anche mia madre si fermò e, accarezzandomi i capelli e le guance, mentre mi guardava con tenerezza intensissima,  col volto illuminato dal suo dolce sorriso di perla, mi fece sedere su di un muricciolo, in un piccolo slargo della strada, da dove, dalla via Bolognese, si vede il bellissimo panorama della vallata del Mugnone e, sull’altro versante, della collina di Fiesole, col convento di S.Francesco sulla vetta : un angolo di pace e di bellezza, dove ancora oggi, nonno ormai anziano, mi fermo immancabilmente, commosso e pervaso dai ricordi,  quando mi reco al cimitero di Trespiano, qualche chilometro oltre, per portare fiori, amore e riconoscenza eterna sulla sua tomba, dove lei riposa da più di trenta anni accanto a mio padre.

        “Piangi Gigetto, piangi mio tesoro ; hai ragione ; ma non devi disperarti così – mi sussurrò con voce palpitante di commozione -. Senti : quando la maestra, a scuola, ti dà dei problemi di aritmetica da risolvere, tu sai bene che alcuni sono facili, ed altri, invece, sono più difficili e ti fanno disperare ; in questi casi tu chiedi alla mamma un piccolo aiuto e  la mamma ti prende per mano ed insieme, piano piano, ti guida a trovare la soluzione ; allora ti accorgi che il problema non era poi così difficile come sembrava, e magari ci sorridiamo sopra …. Ecco, in questo momento accade come quando sei a scuola : ci è capitato un problema difficile ; ma così difficile che anche la mamma sta incontrando qualche difficoltà a risolverlo… e tutti e due adesso siamo come due scolaretti in difficoltà – aggiunse ridendo in modo incantevole e sfiorandomi scherzosamente la punta del naso con un gesto che mi fece improvvisamente smettere di piangere e cominciò stranamente ad attenuare la mia inquietudine – ; ma non devi aver paura : non siamo soli e sperduti come sembra, perché qui, accanto a noi, anche se non lo vedi, c’è un grande Maestro ; il più bravo e il più buono di tutti, che sicuramente ci aiuterà, perché Lui sa risolvere tutti i problemi ; e tu lo sai chi è, perché la mamma te ne ha parlato tante volte : è Gesù, quello che ama tanto i bambini …Lui sicuramente farà in modo che qualcuno si fermi e ci dia un passaggio : aspetta, non ti disperare, te lo dice la mamma ; abbi fiducia e qualcosa fra poco succederà. E poi – e qui la sua voce assunse improvvisamente un’inflessione ispirata e dolcissima, che divenne musica per le mie orecchie frastornate di bambino impaurito –  guarda com’è bello questo paesaggio che è davanti a noi : questa bellezza l’ha costruita Dio ; la guerra, invece, la fabbricano gli uomini. La guerra è destinata a finire, come tutte le cose, specialmente brutte, costruite dagli uomini ; la bellezza, invece, rimarrà per sempre, come tutte le cose create da Dio : e tu che sei il più bel bambino del mondo, fai parte delle cose belle che mai finiranno e che nessuna guerra riuscirà mai a scalfire, ricordatelo sempre Gigetto. Adesso dammi la mano, socchiudi un po’ gli occhi ed abbi fiducia nella mamma ; lo sai che quando la mamma ti tiene per mano nessuno potrà mai farci del male, specialmente ora che c’é anche Gesù che cammina accanto a noi … Ma forse c’è sempre stato …  Coraggio Gigetto, riprendiamo il cammino e vedrai che fra poco le nostre preoccupazioni finiranno”.

        E fu proprio in quel momento, quando la guerra sembrava ormai avere travolto la mia infantile fragilità, che si ristabilì nuovamente, d’incanto, quel “magico ponte luminoso” fra la mia piccola mano tremante e quella di mia madre, lieve, tenera, ma solida come il diamante, in una divina unione in grado di farmi “attraversare” il fiume insidioso e terribile della guerra, dalla sponda del dolore a quella del sorriso.

        Io non so se allora ero in grado di “comprendere” appieno, “razionalmente”, la carica di appassionata, serena, ingenua e sorridente fede nell’aiuto divino ; di dolce, incrollabile e sapiente forza, che permetteva a mia madre di “trasformare” quasi magicamente le situazioni più drammatiche in “favole” a lieto fine, oppure in eventi comunque “aperti” ad una possibile soluzione : sicuramente non lo ero ; ma, nella misura in cui, a distanza di più di sessanta anni, ricordo ancora le sue parole, quasi come se fossero rimaste “scolpite” indelebilmente nella mia memoria di bambino di appena sette anni, certamente dovetti “sentire” tutto il fascino e la luminosa energia che da esse emanava. Mi trovai come “rianimato” da una prorompente ed improvvisa “spinta” che mi nasceva da una nuova, “strana” sicurezza che mia madre era riuscita a trasmettermi ; affidai con devoto, totale e fiducioso amore la mia piccola mano alla sua, accogliente, tiepida e carezzevole, ed insieme riprendemmo il nostro tormentato percorso.

        Adesso, malgrado siano trascorsi tanti anni da quel lontano giorno nel quale io e mia madre osammo da soli “attraversare” e “sfidare” la guerra, muniti soltanto della forza del nostro reciproco amore e del sorriso della speranza, io avverto ancora un certo “sognante imbarazzo” tutte le volte che penso a ciò che accadde di lì a poco :  il trepido, quasi incredulo, ma sorprendente e commovente “imbarazzo” che si prova dinanzi ai “miracoli”, quando ci “colgono di sorpresa” e ci lasciano come “sospesi” ed “esitanti” fra realtà e sogno.

        Perché, d’incanto, come già era accaduto in Sicilia, quando le “magiche” parole di mia madre avevano “messo a tacere” l’inferno degli aerei nemici e delle cannonate (almeno nella mia infantile convinzione), anche ora, nuovamente, il suo trascinante, dolcissimo discorso ebbe il potere di “trasformare”  le dure leggi di granito della guerra, permettendo alla vita di riaprirsi alla meraviglia del possibile, dell’impensabile, della esultante sorpresa.

        Avevamo percorso appena poche centinaia di metri, ripetendo il vano rito della richiesta d’un passaggio, quando, da dietro una curva della strada, si profilò un’elegante macchina nera, che, fra il rumoroso flusso dei camion militari, procedeva a velocità molto moderata, quasi, stranamente,  da “vacanza”. Mia mamma la notò immediatamente e, con un sorriso di grande felicità, mi strinse la mano e mi gridò, tutta gioiosamente eccitata, quasi come una bambina : “Gigetto, guarda : ecco la fine di tutte le nostre preoccupazioni ; Gesù ci ha aiutati !”.

         Io non so dire ancora oggi in base a quale straordinaria “ispirazione” mia madre potesse prevedere che quella macchina si sarebbe fermata al suo cenno, che la carica della sua gioiosa certezza rese incantevolmente festoso : sta di fatto che la macchina si accostò a noi e si fermò realmente, e con essa si fermò anche il tempo, trasformandosi in una “favola”.

        Era un’auto “lunga”, pulitissima, di quelle che avevano i sedili pieghevoli fra il posto guida ed il comodo “divano” in fondo all’abitacolo e potevano ospitare fino a sei persone: una vera meraviglia ai miei occhi stupiti di bambino!

        La macchina era condotta da uno “chauffeur” in divisa, col classico berretto a visiera, mentre sul divano posteriore stava comodamente seduto un signore con i baffetti, molto elegante,  in doppiopetto blu, con un papillon “à pois” sulla candida camicia ed  un fazzoletto chiaro che gli spuntava dal taschino della giacca : quasi un personaggio “cinematografico”, capitato in mezzo alla guerra solo per puro caso …

        Quando l’auto fu ferma, il signore scese e salutò con un fare molto aristocratico mia madre, la quale , dopo avergli risposto con una sorprendente affabilità da “grande signora”, gli spiegò in poche parole la nostra precaria situazione, rendendomi subito “superbo” e perdutamente “innamorato” ed “orgoglioso” di lei e della sua spontanea “classe”.

        Dopo il suo breve racconto, il signore, senza esitazione alcuna, pose  immediatamente e miracolosamente fine a tutto il nostro lungo tormento, invitandoci, con un lieve inchino, a salire sulla macchina, della quale tenne aperto lo sportello, con un gesto elegante, accompagnato da un accogliente sorriso.

        E così, la mano miracolosa di mia madre mi condusse ancora una volta lontano dal brutale frastuono della guerra, facendomi entrare in quella ovattata e favolosa “reggia” mobile, fuori dal tempo, dove, con mio grande stupore, ella, sedendosi comodamente sul divano di pelle e tenendomi accanto a sé, mentre il signore si sistemava su uno dei sedili pieghevoli per lasciarle, con mirabile galanteria, più spazio possibile, cominciò a conversare amabilmente col nostro ospite, con un sorridente spirito “salottiero”e con una grazia  che non le avevo mai visto, ma che mi avvolse subito in un alone di favolosa, magica atmosfera, resa ancor più suggestiva dall’ eco della serena voce del signore che si intrecciava con quella di mia madre in una sorta di armonioso concerto a due, mentre l’autista, come un “cocchiere” abile e discreto, ci portava …a quel punto non avrei più saputo dire dove, tanto quell’auto, ormai, nella mia fanciullesca fantasia, si era trasformata in una sorta di alata carrozza, in grado di volare sopra tutti gli eventi che imbruttiscono il mondo.

        Ricordo soltanto che, vinto dalla stanchezza di quella tumultuosa e straordinaria  giornata,  cullato dolcemente dalle voci, dal ronzio del motore e dal lieve dondolio dell’auto, finii lentamente con l’addormentarmi, con un senso di profonda beatitudine, abbracciato a mia madre. E fu solo la musica della sua voce, accompagnata da una tenera carezza, che mi risvegliò, non so quanto tempo dopo, quando eravamo ormai giunti a Scarperia, proprio dinanzi alla nostra abitazione, come in un sogno.

        Seppi poi, dalla narrazione che mia madre fece a mio fratello Giacomo, che ci attendeva a casa  assai preoccupato per il nostro ritardo, che il signore che ci aveva “raccolti” sulla Via Bolognese era il ricco proprietario di una villa situata alle porte di Scarperia (che ancora oggi esiste all’uscita del paese, andando verso il passo del Giogo),  “ che   proprio in questo giorno Gesù ha voluto che si recasse a Firenze per affari, per poi incontrarci ed aiutarci lungo la strada del ritorno : ed ora, eccoci qui !”  – come ella disse infine, sorridendo luminosamente, con una carezza per me ed una per mio fratello Giacomo, e  concludendo il suo racconto, dove tutto, ormai, appariva naturale nella cornice della sua incrollabile e limpida fede. Ed io, nella mia palpitante ed incantata anima di bambino, pensai che in quel memorabile giorno, ancora una volta mia madre aveva finito col trionfare sulle insidie del male, trasformando la sofferenza in sorriso.

        Mia madre è morta di cancro il 4 maggio 1971, nel piccolo ospedale di Poggiosecco, sulle colline di Careggi, a Firenze, dopo sei lunghissimi anni di altalenanti sofferenze e di dolorose operazioni. Mi lasciò di prima mattina, in un tripudio di sole, di fiori profumati e di rondini, che inondò tutti i miei sensi mentre attraversavo il parco dell’ospedale, correndo disperatamente da lei dopo che mi era stata telefonata la notizia del suo decesso.

        Quando la composero provvisoriamente su una lettiga, nella piccola, antica cappella situata in un angolo del giardino dell’ospedale, io volli rimanere a vegliarla, lasciando che fossero mio fratello e mia cognata ad assumersi l’incarico di provvedere alla preparazione delle  esequie. Non essendovi stati altri decessi, ebbi la possibilità di rimanere interamente solo con lei per  buona parte della giornata, in quella cappella luminosa, dalla cui porta aperta entravano gli effluvi della primavera in fiore ed il cinguettio discreto degli uccelli : e, dopo tanta sofferenza, la vidi nuovamente sorridere mentre le donavo una rosa carpita al giardino e le prendevo delicatamente la mano, con una intensa, commossa richiesta nel cuore.

        Una richiesta che ella, forse, avvertì, chissà da quale lontano orizzonte, perché quel lieve contatto, quasi per magia, fu come se ristabilisse l’antico, luminoso ponte incantato di un tempo indimenticabile, attraverso il quale, questa volta, mia madre mi aiutò a passare dolcemente dalla sponda della vita a quella del ricordo : un ricordo che ella mi ha lasciato  ricco di una meravigliosa eredità, che ho sempre intravista racchiusa in alcuni mirabili versi di Pablo Neruda, un poeta che amo e che spesso le declamavo con intensa passione, suscitandole  un complice sorriso  d’intesa:

“Quando la nostra vita inaridisce,
ci restan solo le radici
e il vento è freddo come l’odio,
allora cambiamo pelle,
unghie, sangue, sguardo
e tu mi baci e io esco
a vender luce per le strade.”

         La luce che mia madre, da immortale, sublime Maestra, ha acceso per sempre dentro di me, con la sua alchemica capacità di trasformare il significato degli eventi , è il fuoco di passione e di entusiasmo verso la Vita, che ha alimentato e che sostiene ancora oggi il mio amore per l’Educazione, per la Filosofia, per la Psicologia, per la mia realtà personale di padre, di nonno, di uomo e per tutto ciò che abbellisce l’esistenza, la sottrae al dolore e la rende degna di essere vissuta.

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...andiamo lì dove nulla aspetta
e troviamo tutto ciò che sta aspettando.


Pablo Neruda, Ricorderai.



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