A tutti coloro che con sofferenza camminano nella vita in cerca di patria, di sicurezza, di pace e d’amore, per unire, non per dividere, per costruire, non per distruggere.

Sempre mi stupisco, amico mio,
quando precipitosamente
ti sposti sull’altro lato della strada
vedendomi arrivare
col fardello delle mie povere cose.
Eppure dovrei sapere che
queste crudeli geometrie
di traiettorie taglienti,
che separano il bianco dal nero,
il chiaro dallo scuro
come il Bene dal Male,
sono un rito assai antico.
Già duemila anni fa
lo praticarono un sacerdote
e un levita, ministri del vostro Dio,
incontrando un moribondo
sul loro cammino.
Anche essi si spostarono
sull’altro lato della strada
pensando che fosse il lato giusto,
o forse quello più comodo,
oppure quello più spietatamente logico
per rimanere puliti.

Io non so giudicare,
so soltanto guardare in silenzio.
I miei occhi ormai
sono troppo impregnati
di memorie di ferro e di fango,
di acque vermiglie per il sangue innocente,
di orge d’uomini che si detestano
e si dilaniano latrando l’un l’altro.
Sono occhi stanchi
d’essere prigionieri
della beffarda
rotondità del Tempo
dove tutto puntualmente si ripete
e dove un uomo sempre continuerà
ad invitare il proprio fratello
ai campi della barbarie e dello sterminio.

Forse capisco perché mi sfuggi, amico mio.
Io sono l’Esule inaspettato,
lo Straniero scomodo,
la ferita dell’Infinito che si definisce
rimanendo imprigionato nella morsa del Limite,
sono la spina dolorosa che ti punge
nel tormento di notti senza fine,
quando s’annienta la tua brama d’onnipotenza
e ti trovi fragile, sperduto, senza scampo.
Sono la persecuzione della tua Ombra,
quando viene inesorabile a ricordarti
che già il nascere è l’inizio di un Esilio.

Io conosco bene il linguaggio dell’Esilio :
sono nato nel Deserto, amico mio.
Ho il Deserto nell’anima.
La mia bocca sa di sabbia,
la mia pelle è levigata
dalla polvere delle tempeste.
Forse il Deserto stesso
mi ha partorito,
nella disperazione di silenzi senza fine,
nello smarrimento di spazi smisurati,
nell’impotente dolore
di una madre che non sapeva
come sfamare il pianto dei figli
bruciati da un sole impietoso e accecante.
Là dove un sorso d’acqua fangosa
è un dono inestimabile
e dove anche una rara lucertola
è un banchetto sontuoso,
ho visto spegnersi vite a me vicine,
divenute inutili larve senza nome.
Sapessi quante
volte ho lacerato
gli spazi silenziosi della desolazione,
col mio grido di dolore,
cercando di estorcere un significato
da quella insensata pena di vivere,
mentre, implacabile, mi rispondeva
solo il rovente soffio
del vento del deserto
che tutto cancella nell’oblio
dei suoi vortici senza fine.

Ma forse tu, amico mio,
tu che sospettoso continui a guardarmi
dall’altro lato della strada,
tu, forse, ora ti chiedi
per quali vie io sia giunto fin qui,
a disturbare i tuoi passi.

Ti narrerò di un viaggio.
Non so ancora se per una fine
o se per un nuovo principio.
Ricordo che ci fu una notte,
in cui la fame e la sete,
dopo un giorno crudele
di spietata tortura,
fecero del mio povero corpo
stremato e ansimante
un’arida pietra di dolore
dimenticata sulla vetta di una duna.
La perfidia del Deserto
aveva iniziato a sfiorarmi
con le sue insidiose
carezze di sabbia
per condurmi lentamente
nella tomba fatale degli avi,
quando i miei occhi
in un ultimo guizzo di vita
si spalancarono come finestre
avide d’Infinito
ed io rimasi inondato
dall’immensità del cielo stellato,
mentre la mia anima
sentiva, repentino e imperioso
il richiamo lontano
d’una nuova, possibile patria.
Non era il cielo sbiadito e umiliato
dalle luci arroganti
delle vostre città,
ma il cielo superbo, smisurato, infinito,
solcato da bagliori d’Eterno,
forse sfiorato in tempi immemorabili
dalla carezza amorevole
di un Dio generoso
che aveva lasciato l’impronta
della sua luce divina
negli astri della notte.
Prima non avevo mai avuto
bisogno di cielo.
La notte mi attraeva soltanto
come una pausa di frescura,
un alito di sollievo troppo breve
per lenire il tormento
del giorno infuocato
dalla fiamma continua del sole.
Ma in quella notte d’incanto
la mia anima affranta
fu come rapita dalle stelle
che con le loro invitanti geometrie
tracciavano mappe di universi lontani
e stillavano gocce di speranza,
rendendo stranamente minuscolo
l’arido deserto della mia vita.
E fu in particolare una stella,
la prima ad annunciare la notte
e l’ultima a spegnersi all’alba
ad esercitare uno strano richiamo
che mi fece prorompere infine
in un pianto dirotto e struggente.
Mi misi in lento, faticoso cammino
e fu quello l’inizio di un viaggio,
guidato da un sidereo mistero.

Ero povero e il mio fu subito
il terribile viaggio di un povero.
Partii da solo, in silenzio,
con la mia stella negli occhi e nel cuore.
Ben presto incontrai altri poveri,
fratelli come me silenziosi,
tutti in cammino
sullo stesso lato della strada,
forse anch’essi seguendo una stella.
Una lunga carovana di poveri,
crudelmente esclusi
dalla dignità dell’esistere.
Uomini, donne, bambini, vecchi,
ombre anonime, inermi,
senza identità, senza patria,
fummo esposti a subire ben presto
l’eterna implacabile legge
di chi da sempre ha piegato il più debole.
Uomini torvi, dagli ignobili volti
di barbari senza alcuna pietà,
con l’inganno di false promesse
ci fecero schiavi dei loro voleri.
Udii urla di donne violate,
pianti di bimbi strappati alle madri,
vidi vecchi insultati e percossi,
vidi esseri umani venduti
a orride bestie innominabili,
subii l’umiliazione della frusta
e della fredda e tagliente catena
lungo interminabili percorsi di dolore.
Attraversai rovine di città
sgretolate dall’odio primordiale
del fanatismo assassino
che non conosce l’Amore.
Condivisi il pianto dei perdenti
che il freddo artiglio della guerra
strappava dai propri beni e dai propri cari.
Solo il cielo della notte
con la mia instancabile stella
mi insegnava a sperare
in un ordine possibile e giusto.

Ed infine ecco l’enigma del mare!
Immenso, sconosciuto, cupo
nella sua invernale inquietudine.
Il mare, con le sue onde instancabili
che cercano sempre se stesse
scavalcandosi senza mai ritrovarsi.
Il mare con la sua superficie
di liquide dune amare
che ondeggiano, mormorano
e parlano e gridano invano
ombre di parole che svaniscono
nel lamento assiduo dei gabbiani.
Il mare che nei silenzi abissali
della sua inviolabile anima
nasconde segreti che mai scopriremo.
Quel mare, sotto il cielo di piombo
di un gelido inverno
che velava le stelle,
ma non nascondeva la mia guida
fu lo scenario dell’ultimo oltraggio
che tormentò il mio corpo emaciato.
Dopo giorni angosciosi
di devastante tortura
in recinti di dolore indicibile,
fui spinto a forza con altri fratelli,
fra urla bestiali e minaccia di armi,
dentro un barcone fragile e immondo,
guidato dall’odio di uomini turpi,
che incuranti del nostro terrore
si inoltrarono sulle acque sinistre
di un mare dai denti di spuma
che mordeva infuriato lo scafo
imprimendogli salti convulsi sulle onde,
mentre gelidi spruzzi salati
schiaffeggiandoci il volto
ci annebbiavano gli occhi
accrescendo la nostra paura.
In quell’inferno di grida, di lamenti,
di disperati richiami, di imprecazioni e minacce,
mi trovai ad assistere all’orrida scena
della morte di alcuni compagni
caduti o forse spinti in quei flutti
insaziabili, che tutto inghiottivano,
anche le nostre ultime lacrime.
Dopo una notte straziante,
dilaniata da voci di morte,
sotto l’esangue pallore
di una luna ammantata di lutto,
l’alba ci trovò abbandonati
dai nostri truci aguzzini,
come relitti senza valore,
alla deriva nell’immensità palpitante
di un mare che faceva da eco
ai nostri lamenti e al disperato pulsare
dei nostri cuori ormai sempre più deboli.
Più volte arrivai a sentirmi perduto,
ghermito dall’abisso senza ritorno,
quando al chiarore del giorno incipiente,
come in un lampo di nuova speranza,
rividi la stella del mio lungo cammino.
Messaggera d’Infinito,
nel suo ultimo squillo di luce,
se ne stava immobile su un rosato orizzonte,
a indicarmi una terra promessa.
A quella vista il mio povero corpo
martoriato dagli atroci tormenti
di un mondo feroce e crudele,
rinacque d’incanto alla vita.
Poi, un rumore di eliche amiche
che scendeva improvviso dal cielo
fu come un trionfale inno di gloria,
che segnò la fine del nostro vagare.
Giunsero navi dall’agile forma,
udimmo parole finalmente umane
e poi uomini e donne dai volti benigni
si presero cura di noi, ci accolsero
ed io dopo un tempo infinito trascorso nel Nulla,
potei finalmente pronunciare il mio nome.

Adesso, amico mio, dopo il lungo
e durissimo viaggio, colmo di insidie mortali,
io mi chiedo, dubbioso, se sia giusto affrontare
gli artigli della gelida Morte
perché la Vita un po’ ci sorrida
e ci sfiori la sua calda carezza.
Questo è il prezzo fatale
riservato a chi vuole rinascere?
Fu giusto che io, disperato,
dovessi più volte finire
per potere ottenere un nuovo principio,
e arrivare fin qui,
dinanzi a te, amico mio,
che mi tieni a distanza
dall’altro lato della strada?
Sono domande che mi fanno soffrire
e temere nuovamente il Deserto.

Ma se prima un Mare e un Deserto
ci separavano in modo incolmabile,
adesso ci sono fra noi solo due marciapiedi
che fiancheggiano la medesima via,
dove noi siamo troppo impegnati
a misurare la nostra distanza
per notare che invece questa strada ci unisce.
Forse è proprio la stella lucente
che mi ha fatto da guida
ad avermi condotto fin qui,
perché le nostre vie si incontrassero.
Essa non teme le umane distanze.
Sotto il suo sguardo sidereo
tutto ciò che l’uomo ha diviso
con freddezza geometrica
o con la spada feroce dell’odio
è soltanto illusione che passa.
Ciò che invece rimane
è l’eterna armonia del fiore,
che sempre tornerà immutabile a nascere
nei dolorosi campi di Caino,
dove l’uomo ha seminato
rovine e pianto di cadaveri.
Se quella medesima stella
oggi ha guidato anche te,
come ha guidato me, amico mio,
a incrociarci su questo percorso,
forse l’incontro non avviene per caso.
Tu andavi di fretta
inseguendo i tuoi affari
le tue gioie, i dolori,
i piaceri, le speranze,
i tuoi sogni, gli amori,
portando con te la tua storia.
Io ti ho indotto a notarmi
a costo di intralciare i tuoi passi,
con la mia inaspettata presenza
e col peso della mia dura storia.
Sono stato un fastidio,
un fantasma importuno
una nuvola grigia,
una nota stonata.
Ma ci siamo guardati
e ora sai che io esisto,
come volto che si specchia nel tuo
così come il tuo si specchia nel mio.
Ambedue esistiamo
e camminiamo
sotto un’unica stella,
da sempre presente
nel concavo cielo
che tutto contiene
e tutto fa muovere
in un cosmico abbraccio armonioso.
La stella non fa differenze,
e sotto il suo sguardo infinito
ogni filo di umile erba
ogni cane preso a sassate
come ogni essere umano,
anche il più povero e depredato
e il più duramente ferito
da una sorte spietata :
tutti sono, siamo sempre essenziali :
commensali importanti di un cosmico invito
perché figli di un unico, eterno cielo stellato,
solcato da comete senza tempo,
che guidano e sempre guideranno
uomini estranei e diversi fra loro
a scoprirsi come fratelli
responsabili gli uni degli altri
e non più frettolosi viandanti
che camminano nell’indifferenza.

Firenze, 24 Febbraio 2019
Luigi Adamo

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