Perché un’intestazione ispirata al titolo (e non solo !) del famoso capolavoro cinematografico di Ingmar Bergman (1957)?

       Nel corso della mia ormai quarantennale attività di Psicologo, di Docente di Psicologia e di Professore di Filosofia e Storia nei Licei (adesso in pensione), mi è accaduto assai spesso, e mi accade ancora, di incontrare persone protese a ripercorrere, a dipanare, o a scoprire per la prima volta il “romanzo” della propria vita, alla ricerca affannosa, talvolta disperata, di un significato da dare al proprio esistere; persone che nel dialogo con la quotidianità, oppure in seguito a qualche evento particolarmente destabilizzatore, avevano preso coscienza – graduale o repentina che fosse –, di essere portatrici di un malessere, di una specie di male oscuro, che, dilagando luttuosamente nel loro intimo, aveva rivelato, in modo desolante, una difficoltà, un’impotenza, una sensazione angosciosa di fallimento, di “scacco” più o meno continuo, nel rapporto fra i propri desideri, anche quelli più legittimi, e la realtà esterna.

       Tale malessere poteva evidenziarsi in uno specifico settore del sentire e dell’agire, come l’amore, il sesso, le relazioni interpersonali, lavorative, coniugali, intrafamiliari ed altro, oppure essere già profondamente radicato, in modo più globale, in una visione depressa, crepuscolare e povera di speranze nei confronti dell’intera vita, accompagnata da un’autopercezione di “inutilità” e di “nullità”.

       In ogni caso, questo insidioso ed insinuante male oscuro era la fonte di una parziale o totale pietrificazione delle energie individuali, come se la persona fosse stata esposta allo sguardo raggelante di una mitica Gorgone, che, arrestando lo scorrere del tempo ed il libero flusso della vita, avesse prodotto una sorta di “incantesimo”, cioè una condanna a ripetere sempre, in modo del tutto sterile, gli stessi comportamenti, gli stessi errori, le stesse contraddizioni, nella cornice immutabile di un “eterno” e desolante riproporsi delle medesime paure, frustrazioni, delusioni, rabbie e smarrimenti.

       Di queste persone, che ormai porto nel mio cuore come una seconda famiglia, sono stato, e sono ancora oggi, quotidianamente, ascoltatore, accompagnatore, interlocutore, “difensore”, “sostenitore”.

       Insieme abbiamo percorso, e percorriamo, un certo tragitto di vita, condividendo sofferenze, momenti di disperazione, incertezze, dubbi, speranze, nello sforzo comune di potere infine decifrare il significato oppure la causa dell’oscuro maleficio che ha strappato il sorriso all’esistenza.

       Puntualmente, questa ricerca ha portato sempre a riesaminare e scandagliare i momenti cruciali, gli episodi, i “climi”emotivi ed educativi, le esperienze, le svolte che hanno costellato le varie fasi della vita dei miei interlocutori, specialmente durante l’infanzia e l’adolescenza.

       Spesso si sono aperti scenari di intensa drammaticità, talora colmi di passate violenze, più o meno sottili, subite da bambini come brucianti tradimenti; oppure storie di prevaricazioni, di conflitti, di incomprensioni, di ricatti, di ribellioni aperte o segrete, che lacerano l’anima; oppure, ancora, si è dischiusa la visione di veri e propri “deserti affettivi”, aridi, senza amore, senza altra comunicazione se non il silenzio che rende invisibili e diffonde la morte nel cuore, come condanna ad un precoce invecchiamento: tutte “foreste pietrificate”, in grado di sconfiggere la vita.

       Eppure, è proprio aggirandoci e “rovistando” nel labirinto di questi luoghi “danteschi” della disperazione che abbiamo sempre cercato insieme di trovare un “filo di Arianna” in grado di fornire una traccia che potesse condurci ad un “punto-leva”, mediante il quale divenisse possibile sollevare o, meglio, ri-sollevare il mondo desolato della sofferenza, introducendovi una nuova dignità, un nuovo senso, una nuova libertà, per rimettere in movimento il tempo immobilizzato dal disagio.

       Sicuramente, non sarà mai concesso ad alcuno di poter risanare le ferite che il nostro passato ci ha inflitto, specie da bambini o da adolescenti, mediante l’illusione che ciò che è accaduto non sia mai avvenuto; ma sarà pur sempre possibile rivisitare e guardare con occhi nuovi proprio “quel” nostro passato e l’intera nostra vita, proponendoci questa volta da protagonisti adulti e non più da bambini indifesi.

       Nella realtà, infatti, è lo sguardo del bambino indifeso dinanzi alle prevaricazioni della vita a pietrificare il mondo: di per sé il mondo, da un punto di vista emotivo, alle origini di ogni esistenza, non è ancora né pietra (terra), né acqua, né aria, né fuoco (i quattro “elementi” degli antichi filosofi greci): è soltanto un puro “possibile”.

       Esso diviene materia “pesante”, solo quando il bambino comincia ad osservarlo sempre più insistentemente con smarrimento, attraverso il filtro delle sue paure, per l’accumularsi delle ingiustizie subite. È a quel punto che il tempo si arresta ed un’intera area della nostra vita, più o meno vasta, si impoverisce e diventa un insormontabile “macigno”.

       Si tratta di un “grumo” segreto di fragilità, che poi si sedimenta e si conserva negli anni come predisposizione a “guardare” ripetitivamente certi aspetti dell’esistenza personale sempre con gli occhi del bambino smarrito.

       Prendere, allora, coscienza di essere adulti; “rinascere” come tali; imparare gradualmente ad osservare con gli occhi nuovi dell’adulto il mondo della propria antica sofferenza infantile; “trasformarla”, rimettendola in movimento e vedendola come una tappa transitoria della vita e non più come un immobile, tragico e granitico punto fermo, senza futuro, che ha immobilizzato l’intera esistenza: ecco i vari passaggi, la scoperta di un nuovo “decalogo” esistenziale, il delinearsi di un nuovo progetto di vita e, poi, la vera, autentica strada maestra che, dopo tante affannose esplorazioni fra gli intricati sentieri del dolore, abbiamo infine sempre caparbiamente cercato di trovare e di praticare con i miei interlocutori, nello sforzo di sconfiggere quell’oscuro “male di vivere” che ci aveva fatto incontrare e disperare insieme.

       Ma per potere anche soltanto iniziare a “guardare” con vista rinnovata il “romanzo” della propria vita, riattivandone la ricchezza ed il mobile fluire, si è resa sempre necessaria, da parte di ogni persona da me seguita nel suo “cercarsi per ritrovarsi”, l’individuazione preliminare di un “punto prospettico”, mai intravisto antecedentemente, ove collocarsi da adulto (e, quindi, dall’alto), per poter cogliere, poi, il panorama della propria esistenza alla luce di nuove angolazioni.

       Tale “luogo”, puramente mentale, ma frutto di un mutato atteggiamento verso la propria vita, si è costituito spesso come una sorta di vero e proprio osservatorio, o laboratorio di nuove scoperte, dove, mediante inaspettate alchimie emotive, si poteva “rifare i conti” con il proprio passato e con se stessi, e da dove, poi, potevano dischiudersi altre possibilità, altri orizzonti circa il presente ed il futuro dell’esistenza personale.

       Quando, ad esempio, da questa nuova “postazione”, è accaduto talvolta, con alcuni dei miei interlocutori, di “inquadrare” antiche relazioni interpersonali, episodi e “nodi” cruciali di vita, che potevano aver condizionato e reso drammaticamente compromessa fin dal passato la sicurezza in se stessi (giudizi negativi, sconfitte, punizioni, conflitti, rifiuti subiti, senso di “deriva” ed altro), è stato spesso possibile cominciare ad “intravedere” quanto tutto il “male oscuro” dei propri tormenti, delle proprie inibizioni e della propria attuale sensazione angosciosa di “insignificanza”, in realtà potesse, forse, provenire da un remoto, insinuante e recondito “inganno” subito in età evolutiva, in grado di alimentare, poi, un rapporto di malafede con se stessi.

       Parliamo dell’inganno sottile delle aspettative altrui, il quale, se anche “perpetrato” talvolta in perfetta buona fede e “per amore” da parte di chi, come genitore o “tutor”, affianca un bambino o un adolescente, tuttavia costruisce e “programma” l’esistenza di chi ne è oggetto in modo da convogliarla forzatamente entro ruoli, codici, modi di pensare e di essere, che possono risultare spesso assai estranei all’intima realtà della persona, ma ai quali non ci si può sottrarre, poiché tali “proposte” provengono da una Autorità (quella Paterna o Materna che dir si voglia), che, alle origini, è vissuta come assolutamente perfetta, infallibile, potente, e che, in qualunque momento, può dare oppure togliere amore, mentre la sua parola è legge.

       Con questa Autorità “ricattante”, allora, per la nostra stessa sopravvivenza affettiva, non rimane che identificarsi; di questa Autorità ci troviamo ad interiorizzare il linguaggio; con questa Autorità da un certo momento in poi della nostra vita si comincia a confrontarsi implacabilmente, per giudicarsi. Ed è qui che si annida quel “meccanismo” devastante che, come ormai sappiamo, “pietrifica” il rapporto con se stessi.

       Quando accogliamo dentro di noi questa Autorità, per essere a nostra volta da lei accolti ed amati, è come se ci trasferissimo interamente nel suo territorio; ma se quel territorio ci rimane estraneo, è a quel punto che inizia il nostro lungo e tormentato esilio da noi stessi e dalla nostra più profonda intimità. Diventiamo quasi come stranieri, che, per accattonare “accoglienza”, vivono in un altro continente, lontani dalla propria terra d’origine; individui smarriti ed tormentati dalla nostalgia, che sono obbligati a dimenticare la propria lingua madre, per parlare un linguaggio “diverso”; nuovi “schiavi”, che si trovano costretti, con enorme fatica, ad adattarsi ad usi e costumi assai distanti dal proprio modo di pensare e di essere e che, infine, devono subire l’umiliazione di sentirsi giudicati, derisi, trattati con arcigno disprezzo ed emarginati se non rispondono adeguatamente alle regole che il Regime della terra straniera impone.

       Ma il potere intrusivo ed invasivo dell’Autorità è ancora più sottile e subdolo, perché riesce a convincerci in modo insinuante che quel Regime è anche l’unica Verità possibile da seguire e che saremmo degli inetti, delle nullità, se non riuscissimo ad adattarci.

       Potremo, in certi momenti, anche ribellarci, allontanarci, dire “basta”, contestare, commettere persino atti assai trasgressivi, ma, poi, implacabilmente, non riusciremo mai a liberarci dal senso di colpa di avere rinnegato ed offeso l’Autorità, poiché essa si è ormai impadronita di noi, è scomparsa progressivamente come Altro-da-noi, ne abbiamo smarrita la memoria, ma è rimasta insediata in noi come una nostra “nuova natura”, che ci giudica e che ci inocula l’idea divorante che, se deviamo da essa, da noi non ci si potrà attendere mai nulla di buono.

       Quest’ultima sensazione, che irrompe infine come una terribile certezza, è come un’estrema rinuncia a ciò che siamo o che potremmo essere intimamente e segna l’avvio di quel rapporto “disperato” con noi stessi, contrassegnato dall’ombra di una dilagante malafede nelle nostre più autentiche capacità.

       Molti dei miei interlocutori, quando li ho incontrati per la prima volta, apparivano ormai irrimediabilmente “contagiati” da questa pesantissima sovrastruttura di pessimismo, che li aveva resi “perdenti” dinanzi a sé ed al resto del mondo.

       Eppure, quando al termine del loro tormentato percorso di “rivisitazione” del passato, hanno osato per la prima volta “arrampicarsi”, cioè “salire di livello” e, quindi, “crescere” fino a conquistare il loro osservatorio per guardare “panoramicamente” sé e la propria storia con lo sguardo più sereno dell’adulto, essi hanno potuto scoprire che il senso angoscioso di inettitudine che aveva “perseguitato”, “paralizzato” o “pietrificato” il loro rapporto con l’esistenza, in realtà era il modo con cui ancora un lato infantile, dimenticato, di loro stessi continuava a guardare il mondo.

       Come se fosse rimasto, dentro di loro, nascosto in profondità, ormai ignorato e rattrappito in un angolo del passato, un bambino smarrito, ammalato d’amore, che, ingannato da un antico ricatto affettivo (“potrai essere amato solo a condizione che …”), era divenuto poi, anch’egli, un inconsapevole ingannatore della propria vita, arrestando il tempo della crescita personale a quello stadio più arcaico.

       La scoperta, dall’osservatorio adulto, di questa segreta “presenza”, sperduta nei sotterranei della propria interiorità, ha provocato sempre, nei miei interlocutori, dapprima un turbinio di sensazioni contrastanti; ma poi, superata la prima impetuosa onda d’urto, tutto, lentamente, si è come convogliato in un nuovo, commovente e sorprendente incontro d’amore con la propria vita, quasi in una straordinaria “congiunzione nuziale” di emozioni, di intensissima forza trasformatrice.

       E’ stato come guardare dall’alto nell’abisso tormentato dello specchio di sé, per scoprirvi l’eco d’un remoto richiamo, a suo tempo ignorato, oppure incompreso, oppure “manipolato” da altri, ma, in ogni caso, ancora in attesa di una risposta, malgrado gli anni trascorsi: e questo richiamo ha come “risvegliato” un moto d’amore e di nuova accoglienza, questa volta non più da parte di un’Autorità esterna che condanna all’esilio, ma da parte di se stessi.

       Questo nuovo “orizzonte prospettico”, entro il quale venivano a ricomporsi antiche e dolorosissime lacerazioni in una nuova armonia, che permetteva al bambino prigioniero di rimettere in moto il tempo della sua crescita, ed all’adulto di “sciogliere” finalmente il grumo pesante del suo fatalismo fallimentare, è divenuto sempre possibile nel momento cruciale in cui la persona raggiungeva quel punto culminante del proprio percorso, che abbiamo denominato l’Osservatorio della propria vita.

       Ebbene, quel “luogo”, da dove è possibile “guardare” e “riguardarsi” con occhio finalmente sereno, proteso verso spazi nuovamente aperti ad infinite possibilità, in un’atmosfera di “rinascita” e con in bocca un nuovo sapore di dolce freschezza primaverile, io l’ho chiamato sempre Il posto delle fragole, ed è là che ho sempre cercato, e cerco ancora oggi, di accompagnare i miei interlocutori.

       Certamente, il “Posto delle fragole” non è (come già accennato in precedenza) uno “spazio” concreto, nel senso fisico e topografico del termine (anche se, talvolta, vi potrebbe essere qualche riferimento ad uno spazio realmente vissuto nella nostra vita, come in parte accade nello stesso film di Bergman); ma è, piuttosto, un luogo virtuale, una sorta di crocevia, dove passato e presente si “riannodano” per avviare un processo dinamico di cambiamento dei nostri sentimenti, delle nostre emozioni e del nostro rapporto con noi stessi e con gli altri. Un luogo dove lo stile mentale, con cui anteriormente ci si rapportava al mondo, si trasforma completamente, dietro la spinta di nuove scoperte, che ci permettono di incontrare lati nascosti, dimenticati, ma pur sempre in attesa della nostra personalità.

       Tale “luogo” non lo si raggiunge a conclusione di astratti ragionamenti logici, o al termine di complessi teoremi (non è, infatti, un “luogo geometrico”), ma lo si “intravede” e lo si “guadagna” per gradi, per “addensamento emotivo”, seguendo una sorta di percorso d’amore, che si delinea progressivamente nell’ intimo, spesse volte proprio quando abbiamo toccato il fondo più buio delle nostre disfatte esistenziali.

       A contatto con i miei interlocutori, ho potuto tante volte constatare quale potente incentivo a far nascere questa nuova “spinta” avesse rappresentato il fatto stesso di sentirsi “ascoltati” e, quindi, collocati al centro di un’attenzione altrui (la mia), per essi spesso del tutto nuova, partecipe ed accogliente, che restituiva loro la possibilità di ridiventare “protagonisti” della vita personale.

       E’ stata quasi sempre questa dialogante emozione a due a risvegliare l’amore ed una nuova dignità nei confronti di se stessi; da quel punto in poi il cammino individuale si è fatto sempre più “ascensionale”, fino al completo raggiungimento del proprio Posto delle fragole.

       Ma va sottolineato, altresì, che il Posto delle fragole, una volta che vi si sia pervenuti, sconfiggendo e superando il limite angusto della propria sofferenza, non è un luogo, per dir così, “di riposo”, di stasi, ma, più verisimilmente, “di impegno” instancabile e “pungente”. Esso, infatti, è situato idealmente come su di un “crinale”, “al di qua” del quale vi è tutto il panorama del nostro passato, che si svela e si trasforma; ma “al di là” del quale, sull’altro versante di quel luogo, si apre uno spazio completamente nuovo e del tutto da scoprire. Uno “spazio” da cui emana una sorta di avvolgente “inquietudine”, di “curiosità” di ricerca, di “apertura” verso il possibile, che non troveranno mai pieno e definitivo appagamento, se non nello stesso cercare ed interrogarsi continuamente, in un dialogo senza fine con se stessi, con gli altri e con il Tutto.

       Questa, paradossalmente, potrebbe sembrare, di primo acchito, una sorta di “eredità malefica” che i nostri antichi dolori ci lascerebbero, quando ce ne distanziamo, guardandoli dall’alto del nostro conquistato “Osservatorio”.

       Ma non si tratta del rinnovarsi di un mitico “Supplizio di Tantalo”, che scopriamo in agguato proprio in quel luogo così faticosamente raggiunto e che ci condannerebbe ad una nuova, ancor più terribile, forma di sofferenza: il paradosso è solo apparente.

       Cercare ed interrogarsi continuamente, senza mai acquietarsi, senza mai presumere di avere raggiunto definitivamente la “verità”; rimanere aperti alla curiosità del “possibile”, senza cadere prigionieri di ottusi fanatismi che inaridiscono l’anima, rendendola fertile al seme della violenza; sentirsi finalmente liberi, in sinfonia concertante con l’Oceano della Vita: tutte queste emozioni, che possiamo avvertire, “guardando” l’esistenza dall’ “altra finestra” del Posto delle fragole, lungi dall’essere delle “condanne”, sono l’essenza stessa della vita umana, ciò per cui l’esistenza è e sarà sempre degna d’essere vissuta.

       Ne viene di conseguenza, allora, che quel luogo, dove il nostro dolore ha trovato lentamente il suo riscatto, non solo ci rimette nuovamente in rapporto intimo con il nostro passato personale, trasformandolo e trasformandoci; ma ci apre anche alla più profonda Umanità che circola in noi e che possiamo riscoprire proprio muovendo dal cuore stesso della nostra antica sofferenza individuale, che in un primo momento sembrava averci chiuso alla vita.

       In sostanza, è come se il superamento del malessere personale, reso possibile dalla scoperta della magica chiave d’accesso al Posto delle fragole, ci introducesse in un nuovo “ambiente interiore”, nel quale e dal quale il nostro sguardo sul mondo, si fa più “acuto”, più “attento” e, soprattutto, più “avido” di penetrare il senso della Vita e del nostro rapportarsi agli Altri ed alla Natura.

       Tutto questo può accadere perché ogni sofferenza dell’anima (ma non soltanto dell’anima), di qualunque natura essa sia, contiene sempre una profondissima carica di energia, magari nascosta e deformata dal dolore, la quale, però, se viene liberata, quando ne cogliamo il significato e la natura, è in grado di trasformarsi in una nuova forma di sensibilità, di stile di pensiero e di nobiltà di sentimenti verso il Tutto.

       Spesse volte mi è accaduto di potere assistere, commosso, a questa mirabile “trasformazione”, quando qualcuno dei miei interlocutori, una volta raggiunto il proprio Posto delle fragole, non “accontentandosi” della mèta individuale cui era tanto faticosamente pervenuto, ha proseguito il proprio percorso esistenziale, proiettandosi verso nuovi interessi culturali, filosofici, sociali, umanitari, artistici, scientifici, e “tuffandosi”, con un entusiasmo prima sconosciuto, oppure latente, nel flusso di una nuova, più ricca “avventura” di vita.

       Questa atmosfera di straordinaria ricchezza d’Umanità, che si respira dall’ “altro versante” del Posto delle fragole e che trascende il piano individuale dell’esistenza, finisce col rendere universale questo luogo magico, facendone una sorta di mèta, cui tutti, indistintamente, dovremmo aspirare.

       In ognuno di noi, infatti, se sappiamo e vogliamo ascoltarci autenticamente, in pensoso raccoglimento con noi stessi – senza lasciarsi distrarre dal “frastuono” del mondo dei “si dice” e dei “si fa” –, è racchiuso sempre un richiamo verso un “altrove”, un “luogo ideale” di speranza, dove l’esistenza individuale, pur con tutti i malesseri che inevitabilmente la costellano, l’accompagnano e la condizionano, potrebbe aprirsi a nuove direzioni di vita, a nuovi progetti, a nuovi linguaggi, magari dimenticati fra le pieghe della nostra storia personale.

       Tale richiamo proviene, appunto, dal nostro Posto delle fragole, o, per meglio dire, dal fascino profondo della sua Utopia di “Isola-che-non-c’è”.

       Una Utopia che sprigiona tutta la sua calamitante forza di attrazione proprio per la sua invisibile, misteriosa ed “imprendibile” natura di luogo-limite, che sempre si sposta nel tempo e nello spazio; che non ci chiede “solenni giuramenti” che imprigionino l’anima, né “contrassegni” che dividano il mondo in amici e nemici: ma vuole soltanto che si rimanga aperti al possibile, pervasi dalla curiosità, quasi “bambina”, delle continue ed inaspettate “scoperte”.

       In sostanza, stiamo parlando di una Utopia costruttiva, che è in grado di far rinascere in noi il desiderio di sognare, di fare progetti, di “costruire”, e che ci fa riconquistare l’amore per l’Umanità e per l’immaginario creativo, oggi troppo spesso sopraffatto dall’imperante e riduttiva frettolosità del pragmatismo tecnologico.

       Perché rimanere sempre insensibili a questo preziosissimo richiamo, racchiuso dentro lo scrigno del nostro cuore? Perché continuare ad eludere un autentico e suggestivo “dovere” che la Vita ci propone? Forse le ragioni che mi hanno indotto a “costruire” il presente sito, giunti ormai a questo punto, sono contenute proprio in queste domande.

       L’essere stato per quasi quaranta anni a contatto con la sofferenza “pietrificante” di moltissime persone, che poi sono entrate, come una seconda famiglia di amici, a far parte della mia stessa vita, anch’essa segnata da antichi e più recenti dolori; l’aver condiviso con questi miei carissimi interlocutori un percorso di ricerca, spesso lungo e tortuoso, nel corso del quale è stata sempre la scoperta di un fondo a noi comune di umana ed universale inquietudine a rendere possibile l’incontrarsi, il comprendersi e l’aprirsi ad una nuova speranza; l’essersi pervicacemente “inerpicati” insieme verso un nuovo “Osservatorio di vita”, che ho denominato Il posto della fragole (ispirandomi ad un film che fu particolarmente caro alla mia giovinezza), dal quale poter “contemplare” la propria esistenza con un nuovo sguardo d’amore, in grado di trasformarla e di “sciogliere” la pietra, per lo più infantile, della sofferenza; l’avere sperimentato assai spesso la straordinaria e rigenerante “apertura” verso valori più universali che la liberazione dal dolore individuale dischiude: ebbene, tutte queste vibranti emozioni, mi hanno “acceso” progressivamente negli anni un crescente “innamoramento” nei confronti della vita, per gli inestimabili richiami che essa contiene, spesso nascosti proprio fra gli anfratti più oscuri del dolore e dell’irrazionalità, dove tutto sembra perdersi apparentemente nelle tenebre del male e dell’assurdo.

       Tale amore, oggi che sto toccando i settanta anni, rimane ancor più vivamente scolpito nel mio cuore e, mentre da un lato, forse, mi fa attendere con maggiore serenità la conclusione – quando sarà il momento – della mia vita (perché chi ama la Vita penso che non possa avere paura della “sorella” Morte), dall’altro lato mi induce a riguardare tutto il mio stesso percorso di bambino, di adolescente, di giovane, di uomo, di padre di famiglia, di nonno e, simultaneamente, di professionista a contatto con persone di tutte le età – dalle centinaia di studenti che ho seguito durante la loro formazione umana e culturale ad altre centinaia di persone che ho accompagnato nel loro cammino di liberazione dalla sofferenza –, come un grande, interminabile viaggio alla ricerca costante – anche io insieme agli altri – di un mio Posto delle fragole.

       Questo “luogo” mi è sembrato infine di poterlo “rintracciare” nel cuore stesso della mia lunga attività di persona impegnata in un dialogo pressoché quotidiano con gli altri: per trasmettere cultura, per indurre a riflettere, per risvegliare il sentire, per aiutare a superare sofferenze, per gioire, più semplicemente, e giocare assai spesso con tutti, grandi e piccini, incontrandoci tutti e sempre al grande crocevia della Vita, dove c’è un intenso fervore di scambi e dal quale ciascuno, poi, riprende la propria strada sempre un po’ diverso e rigenerato rispetto a come si sentiva prima.

       Forse, il mio vero Posto delle fragole è ancora situato lì, in questo “crocevia” un po’ vario, affollato e “polifonico”, dove ormai da tanti anni si intrecciano i messaggi più vari e da dove partono le domande esistenzialmente più incalzanti ed i “progetti” di risposte più lungimiranti, miei ed altrui.

       Questo sito è, appunto, uno di questi progetti: uno degli ultimi e, sicuramente, non l’ultimo. E’ nato da quel “crocevia” come un “dovere” e, insieme, una “offerta”: uno spazio per pensare, un luogo dove ritrovarsi, un auditorio dove “ascoltare per ascoltarsi” meglio e sempre.

Firenze, Febbraio 2005

Luigi ADAMO

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e troviamo tutto ciò che sta aspettando.


Pablo Neruda, Ricorderai.



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