Perché un “omaggio” a Ludwig Binswanger in questo “spazio” denominato “Il posto delle fragole”?

        Non si tratta di un richiamo accademico in contraddizione con quanto detto in altre parti del sito.

        Il mio incontro col pensiero di Binswanger, fondatore della “Antropoanalisi” (le cui caratteristiche saranno meglio chiarite nelle pagine successive), avvenne negli anni settanta, quando già da circa dieci anni mi impegnavo con passione e partecipazione a cercar di lenire la sofferenza delle persone che si rivolgevano a me.

         In quel periodo, avevo cominciato ad avvertire sempre più insistentemente il bisogno di un ulteriore “nutrimento” intellettuale ed emotivo, in grado di potenziare la mia formazione junghiana di partenza , allargandone l’orizzonte verso una più intensa sintonia con il mio modo anche “filosofico” di inquadrare il mondo ed il dolore degli altri, senza farlo evadere troppo verso l’astratto, in maniera inconcludente:  avevo bisogno, in sostanza, di un “ponte” più solido, che collegasse la mia identità di Psicologo con quella di “Filosofo”, che mi impegnava, fra l’altro, nel ruolo parallelo di Professore di Filosofia a contatto con i giovani. Si trattava di un’esigenza che mi nasceva soprattutto dal “cuore”, per meglio armonizzare me stesso e per aiutare ancor più efficacemente gli interlocutori delle mie giornate, protesi a cercare il loro “Posto delle fragole”.

         Già mi ero accostato alla cosiddetta “Psicologia umanistica”di matrice statunitense ed alla “logoterapia” di V. Frankl,  traendone qualche giovamento, ma fu soprattutto  la lettura di un saggio di Danilo Cargnello (Alterità e alienità, Milano, Feltrinelli, 1966) a farmi “incontrare” col pensiero “antropoanalitico” di Binswanger.

         La profonda apertura umana delle sue teorie, che sulla base di una fusione fra le correnti filosofiche dell’Esistenzialismo e della Fenomenologia (che tanta larga parte avevano avuto nella mia personale formazione) con la Psichiatria e la Psicologia, proponevano di “abolire” la netta distinzione fra “normalità” e “patologia” nell’approccio alla sofferenza umana, chiamando lo Psicologo ad una più coinvolta e penetrante attenzione e partecipazione al mondo del dolore, al di fuori di ogni fredda categorizzazione clinica, mi apparve come una fra le più  precise ed entusiasmanti risposte a ciò che veramente stavo cercando, in sintonia, soprattutto, col mio modo di essere e di pormi come “interlocutore” nei confronti del mondo “pietrificato” della persona prigioniera dei propri “mali oscuri”.

         Da allora, lo studio e l’approfondimento delle teorie di Binswanger “entrò” nella mia vita, non solo intellettuale, ma anche emotiva, imprimendo una ulteriore trasformazione al mio modo di vedere, “sentire”, “educare” ed aiutare gli altri, oltre che me stesso.

        L’amore che ho conservato sempre per questo personaggio – peraltro non sempre  adeguatamente conosciuto e valorizzato nell’ambito delle correnti più “ufficiali” dell’ “universo” della Psicologia –, mi indusse già a parlarne verso la fine degli anni ottanta, in un “contributo” che presentai ad un Congresso, a Roma; più recentemente, lo scorso anno, la pubblicazione di un saggio italiano su Binswanger – uno dei pochi –, ad opera di una Docente dell’Università di Salerno (Bianca Maria D’Ippolito, La cattedrale sommersa. Fenomenologia e Psichiatria in Ludwig Binswanger, Milano, Angeli, 2004), mi ha fatto rinascere il desiderio di riprendere in mano lo scritto che elaborai in quella occasione, per inserirlo, ora, con opportune modifiche, nel presente sito, con tutta la riconoscenza dovuta ad uno studioso che, per buona parte, oggi riconosco come uno dei miei più importanti “Maestri intellettuali”.

FINALITÀ, DINAMICA E POLIVALENZA DELL’APPROCCIO ANTROPOANALITICO ALL’UOMO

Linee per una discussione

(Nota presentata nel Maggio 1988 al Congresso organizzato a Roma dall’Istituto di Psicoterapia Analitica, I.P.A., sul tema: “Indirizzi psicoterapeutici a confronto”. Modifiche e aggiunte effettuate nel Novembre-Dicembre 2004)

L’approccio antropoanalitico all’uomo si è sviluppato, com’è noto, ad opera di LUDWIG BINSWANGER (1881-1966) soprattutto a partire dall’inizio degli anni trenta, come risposta critica all’esigenza, peraltro avvertita non solo da Binswanger, di superare i limiti di una psichiatria tradizionale, che “reificava” l’uomo, riportando la sua vita a modelli di funzionamento di tipo naturalistico, con conseguente determinazione di una rigida quanto disumana distinzione clinica fra il “sano” ed il “malato”.

       A tale vigente “riduzionismo scientifico”, Binswanger, utilizzando metodologicamente le proposte della Fenomenologia di E.HUSSERL (1859-1938) da un lato, e dell’Esistenzialismo di M.HEIDEGGER  (1889-1976) dall’altro, contrappose un nuovo modello di comprensione psicologica dell’uomo, che vedeva dietro ogni umano comportamento non tanto la dinamica più o meno ottimale di un apparato psichico naturalisticamente prefissato, quanto un modo di esprimere e declinare una propria umana presenza-nel-mondo (dasein = esserci),  un proprio progetto di mondo, come sintesi cromatica e vivente di un proprio vissuto, di una propria storia personale.

       In questa prospettiva, veniva profondamente modificandosi la tradizionale visione della psicopatologia come scienza dei fenomeni e delle sindromi psichiche devianti da una norma, mentre il rigido dualismo fra sanità e malattia veniva sfrangiandosi, conseguentemente, lungo un più dinamico ed umanizzato “continuum”.

       Nell’ottica antropoanalitica, infatti, le cosiddette manifestazioni psicopatologiche assumevano la configurazione di possibili modi di essere-nel-mondo, da comprendere per via di immedesimazione empatica, più che da valutare in “camice bianco”, mediante criteri di “onesta e scientifica obbiettività”, o, ancora, ponendosi come depositari di un’ unica e monolitica “verità”. Non esisteva più una realtà “normale”, rigida ed immutabile, cui far capo con presuntuosa sicurezza, ma dietro ogni uomo che soffre diveniva ormai necessario intravedere lo sforzo umanissimo di una persona che cerca di dare, come che sia, “significato” al proprio esistere, al proprio rapportarsi al mondo.

       La Psichiatria e, in genere, la Psicologia clinica uscivano quindi, agli occhi del fondatore dell’antropoanalisi, dall’ambito naturalistico, per coniugarsi con la Filosofia, divenendo  scienze autenticamente umane, il cui compito era innanzitutto quello di “descrivere” i possibili modi di progettare il mondo da parte dell’uomo, mentre l’usuale discriminante clinica fra una “normalità” ed una “patologia” si trasformava in una analisi umanamente consapevole della maggiore o minore “ricchezza” delle varie modalità esistenziali.

       In tale nuovo contesto, ad esempio, la sofferenza nevrotica, lungi dall’essere una deviazione, poteva configurarsi come un certo modo di rapportarsi al mondo nella “coartazione” di sé, anziché nella “apertura” e nella libera disponibilità delle proprie possibilità ; nella cristallizzazione o irrigidimento atemporale del proprio esserci, anziché in una più “plastica” storicizzazione dinamica delle proprie esperienze ; nella”chiusura” del proprio orizzonte vitale a se stessi ed agli altri, in luogo di una più dinamica amplificazione della propria vita relazionale, ecc..

       Scaturivano da questa reimpostazione binswangeriana del “comprendere” psicologico preziosi suggerimenti epistemologici, metodologici e psicoterapeutici.

       Da un punto di vista epistemologico Binswanger denunciava chiaramente la problematicità e la limitatezza del modello imperante nella psichiatria e nella psicologia clinica del suo tempo (ivi compresa la stessa Psicoanalisi  –  è nota la sua annosa quanto amichevole polemica con Freud), di un “homo natura” da trattare in termini meccanicistici, di fronte alla ricchezza, polivalenza e globalità dell’umano esistere, che veniva rivelandosi, invece, all’indagine fenomenologico-esistenziale.

       Da un punto di vista metodologico Binswanger elaborava nuove categorie, più ricche e più sfumate, di comprensione psicologica dell’uomo, basate fenomenologicamente sulla ricerca del significato, o dell’essenza progettuale di ogni comportamento, anche quello più apparentemente  “patologico”.

       Dal punto di vista psicoterapeutico, infine, egli prospettava un nuovo modo di intendere il rapporto “medico-paziente”, dove risultava profondamente modificata la consueta relazione di “autorità” all’interno dell’interazione psicoterapeutica, sulla base di una nuova teoria dello sviluppo esistenziale dell’individualità umana.

       Ogni uomo, infatti, secondo l’ottica antropoanalitica – è questa la premessa filosofica (heideggeriana) della proposta di Binswanger -, è una presenza, che, nel momento stesso in cui si costituisce, cioè comincia ad esistere (nel senso pregnante della etimologia del verbo “esistere”, da ex-sistere = porsi fuori, all’esterno), si rapporta ad un mondo (si trascende in un mondo) mediante una linea progettuale, che è conseguenza di una progressiva presa di coscienza di un proprio esserci (cioè dell’assunzione del proprio significato esistenziale).

       Molteplici linee progettuali possono essere presenti inizialmente all’orizzonte di ogni uomo : poi, nel dialogo con la temporalità, cioè col costituirsi della storia individuale, come risultato dell’intreccio fra disposizioni individuali ed influenze ambientali (educative e socioculturali),  tale ricchezza si concretizza nella mia personale visione del mondo, nel mio modo particolare di essere qui ed ora, in rapporto coesistentivo con altri modi di declinare una analoga e parallela presenza.

       Ora, questo passaggio dalla possibilità di esistere alla realtà storica della propria esistenza  si configura e si costruisce alla luce di fondamentali modalità  esistenziali, che danno tono, cioè modulazione, alla vita individuale. Tali modalità, che Binswanger chiama a-priori esistenziali, da intendersi come forme strutturanti o costitutive di ogni umano esperire, sono come delle “cornici immaginali” entro le quali finiscono col raccogliersi le esperienze esistenziali di ogni persona ; sono, cioè, il “filo conduttore”, alla luce del quale ogni persona “vede scorrere” la trama e le tonalità emotive della propria vita nel rapporto interattivo  fra il proprio Io e l’Altro-da-sé.

       I modi possono essere ordinati a seconda che garantiscano all’esistere una maggiore o minore pienezza, cioè a seconda della loro maggiore o minore ricchezza o povertà.

       Un modo è tanto più  ricco  quanto più garantisce all’umano esistere la possibilità di testimoniarsi e di esprimersi autenticamente nella reciprocità di un rapporto fra un Io ed un Tu; sarà, invece, tanto più povero  quanto più confinerà l’umana presenza in un progetto di mondo chiuso,  coatto, difensivo, oppositivo,  oppressivo, negatore, vanificatore, e, in casi-limite, persino annientatore dell’Io, dove il Tu appare minaccioso, persecutorio e destabilizzatore di ogni sicurezza dell’Io.

        Fra i due estremi della ricchezza e della povertà, i progetti di mondo di ogni persona possono venir pensati come disposti lungo un unico continuum, che, escludendo ogni “salto di qualità”  fra “sanità” e “follia”, permette di inquadrare tutti i comportamenti umani come differenziati solo “per grado”, a seconda del poter-essere (posso liberamente esistere, sottratto al massimo dagli altrui condizionamenti); dell’avere-il-permesso-di- essere (posso essere me stesso, ma solo nel ruolo che mi è concesso); e dell’ essere-costretto-ad-essere (non posso essere se non nel segno di un’altrui imposizione, fino all’estrema alienazione di me stesso). (CARGNELLO, 1966).

        Da queste premesse teoriche della visione antropoanalitica dell’umano esistere, l’incontro psicoterapeutico non poteva più configurarsi come uno scambio fra un esperto (colui che sa , che è depositario autorevole di un’ unica Verità) ed  un  malato (colui che non sa capire , che agisce senza sapere , che ha smarrito “quella” Verità e che delega, quindi,  tutto se stesso all’Altro, e da lui dipende completamente per la propria “guarigione”), ma diveniva un dialogo fra due autorevolezze, cioè fra due portatori di mondo, fra due modi-di-essere-nel-mondo, che proprio all’interno di quel rapporto specifico, unico ed irripetibile, potevano sperimentare insieme la possibilità di “scandagliare” nuovi costrutti esistenziali sulla base dell’unico e comune fondo umano del reciproco dialogare. In questa interazione dinamica lo psicoterapeuta non si poneva più  come figura “clinica”,  “distaccato” rispetto alla “diversità” ed “estraneità” del “paziente-oggetto” , ma come persona che nella propria “interezza di uomo” veniva svelandosi  anch’egli “empaticamente partecipe”, in qualche modo,  della realtà dell’altro.

         Questa riduzione di distanze , nella misura in cui “ chiamava” lo psicoterapeuta ad un più  diretto coinvolgimento interattivo nei confronti  del “paziente”, apriva come una nuova “finestra” nel mondo chiuso e contratto della sofferenza umana. La “irruzione” del terapeuta come  “referente-difensore” nell’angusta prigione della persona che soffre si rivelava come la nuova forza in grado di ridare movimento e calore  alla  “temporalità congelata” dell’uomo-che-dispera,  riaprendo la sua vita a nuovi, possibili progetti di mondo  mediante la liberazione di tutte quelle potenzialità creative individuali, rimaste “abbuiate” nella soffocante cella  della sofferenza.

        Che cosa rimane, oggi, della lezione magistrale di Ludwig Binswanger ?

        A nostro avviso, molto: non solo sul piano dell’euristica “clinica” e della psicoterapia,  ma su quello assai più  vasto della stessa educazione dell’uomo.

        Forse oggi come non mai l’uomo, malgrado l’enorme progresso scientifico, sta correndo continuamente il rischio patogeno di essere-costretto-ad-essere  in modalità esistenziali sempre più povere e ripetitive, confinate esclusivamente nel mondo di una quotidianità senza orizzonti e senza altri valori se non quelli immediatamente utilitaristicipragmatico-tecnologici  (il mondo della “cura”= sorge , come diceva HEIDEGGER), perdendo da un lato il contatto vitale con la ricchezza delle proprie possibilità esistenziali, cioè della creatività individuale come espressione di una presenza umana  più lungimirante, più completa, più antropologica; e dall’altro lato smarrendo, altresì , il contatto coesistentivo e solidale  con gli altri uomini, che appaiono sempre più come ombre estranee, distanti,  evanescenti, prive di valore e persino nemiche,   sullo sfondo dell’oscura minaccia (o tentazione ?) di un ritorno all’ homo homini lupus  di hobbesiana memoria.

        Oggi come non mai, perciò, si impone uno sforzo di recupero di significati e di linguaggi esistenziali dimenticati che ridonino ampiezza ed armonia  all’orizzonte umano devastato dall’irrazionalismo, dalla competitività   e dal veleno di quell’individualismo prevaricante, che “chiude” inesorabilmente la personalità umana nel “particulare”, privandola del respiro  dell’ “universale” e condannandola alla sofferenza della solitudine, dell’inutilità, dell’angoscia, dell’insicurezza, della nevrosi e, in casi più estremi, della psicosi.

        I linguaggi da riscoprire, spesso confinati quasi come una “vergogna” o un’inutile “perdita di tempo” nelle più segrete profondità dell’immaginario umano, come “cattedrali sommerse” dall’orgia di una tecnologia senz’anima, sono tutti quei lessici di apertura che, soli,  possono permettere alla personalità umana di  ri-progettarsi nel mondo non più come un “inutile frammento” solitario, staccato dal Tutto, ma come un “anello” di una catena cosmica, dove “tutto, come l’Oceano, scorre e comunica ; tu tocchi in un punto ed il tuo sfiorare si ripercuote all’altro estremo del mondo” (non a caso citiamo un passaggio dal discorso dello Starec Zosima, nel sesto libro dei Fratelli Karamazov  di F.DOSTOEVSKIJ, autore particolarmente amato da L.BINSWANGER).

         Si tratta di tutti quei linguaggi che riaprono alla dimensione simbolica della vita e che trascendono (nel senso etimologico di “porsi al di la”) il “modo quotidiano” della realtà immediata, oppure il reale “sancito” come unica Verità dalle scienze esatte e dalla tecnologia, per cogliere, in un’ottica fenomenologico-esistenziale, anche altre possibilità di rapporto con il mondo, non meno dignitose e ricche, situate non su “un’altra sponda”, diversa e contrapposta rispetto a quella delle scienze e della tecnologia, ma dislocate su di un medesimo continuum di valori umani , dove, ad esempio, la visione scientifica e quella artistica delle cose non si “ confrontano” per poi “scontrarsi” alla luce di criteri di verità e falsità , ma entrambe esprimono due possibili modi di declinare l’umana presenza nel mondo, contribuendo ambedue ad arricchire ed abbellire il comune edificio dell’Uomo.

        Ogni progettazione educativa che voglia essere degna di questo nome non può, oggi, non riaprirsi a questo orizzonte di Umanesimo integrale, per porre fine alla “torre di Babele” dell’individualismo esasperato e fanatico, che costituisce la “malattia mortale” dell’Uomo del nostro tempo.

        In tale quadro di considerazioni, le proposte binswangeriane di “rileggere” la sofferenza  come un possibile progetto di mondo , “contratto”, ma “non avulso” da una comune realtà umana  da riscoprire mediante una nuova apertura del proprio essere-nel-mondo, continuano a conservare ancora, anche se nate piu’ di settanta anni fa, una profonda e vibrante carica di attualità e di preziosi suggerimenti.

Luigi ADAMO

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HUSSERL, E., Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologia, voll. 3, Torino, Einaudi, 1950

HEIDEGGER, M., Essere e tempo, Torino, UTET, 1978

KELKEL, L., SCHERER, R., Husserl, Milano, Il Saggiatore, 1966

VATTIMO, G., Introduzione a Heidegger, Bari, Laterza, 1971

DOSTOEVSKIJ, F., I fratelli Karamazov, Torino, Einaudi, 1993

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