IL SOGNO COME RIVELAZIONE
DEL SIGNIFICATO DELLA PROPRIA ESISTENZA

(La storia di Donato)

Caro Professore,

         oggi sento l’esigenza di aggiungere ai nostri colloqui anche questo mio scritto, perché via via che il nostro lavoro giunge ormai alla sua conclusione e mi incalza dentro con forza inarrestabile, obbligandomi quotidianamente a continue revisioni di me stesso, mi sto accorgendo sempre più chiaramente come, fino ad oggi, la mia vita, in fondo, non sia stata altro che una continua, ingannevole fuga: fuga dagli altri, dalle cose, ma, soprattutto, dal mio io più autentico. Una fuga accurata, quasi studiata nei minimi particolari per non lasciare tracce.

         Forse è giunto il momento di farne un bilancio conclusivo: e lo scrivere può aiutarmi a chiarire meglio le idee.

         Prima di tutto voglio dire che sento ormai profondamente valido ciò che, più o meno apertamente, Lei mi ha aiutato a capire in questi tre anni di incontri, per me così decisivamente illuminanti: è vero, mi ha sempre atterrito l’idea di uscire anche per un solo istante da quella dorata “casa di bambola” che fu la mia infanzia, in cui tutti mi volevano e mi consideravano buono, bello, intelligente, irreprensibile e “caramellavano” la mia vita con proposte di perfezione, vedendo in me l’erede di un mito, quello di mio nonno, di cui porto anche il nome.

         Tutte le mie angosce, i miei tormenti, le mie dolorose spaccature e, soprattutto, la sensazione disperata di essere continuamente braccato e sotto processo, che ho provato per molta parte delle mia vita, hanno senza dubbio alcuno, ormai, la loro lontana origine in quegli anni apparentemente magici, in cui, per un eccesso di amore, fui sottilmente “programmato” a personificare un modello, e non aiutato ad essere semplicemente me stesso.

         Quante affascinanti sirene – mi accorgo ora – hanno popolato la mia infanzia, invitandomi ad esaltarmi continuamente alla vista del quotidiano svolgersi del “mito” di me stesso, che si rifletteva nelle aspettative degli altri !

         La mia vita di fanciullo fu apparentemente incantevole ed invidiabile, ricolma com’era di tutte le amorevoli attenzioni che competono a chi è destinato a compiere futuri passi di gloria. E, certamente, assai naturali mi dovettero apparire allora i “piccoli” sacrifici a cui, in cambio di tanto amore, dovevo quotidianamente sottopormi per personificare quella specie di “piccolo dio” che tutti volevano che fossi: stare il meno possibile con i “ragazzi di strada”; controllarmi; non perdere tempo a giocare in modo “poco intelligente” con la terra, con i sassi, con stupide cianfrusaglie; evitare assolutamente di sporcarsi, di essere disordinato, banale, sciatto nel parlare e nel vestire……; per non ricordare, poi, la scuola, dove l’essere semplicemente “normale” come gli altri era sempre interpretato come segnale di inesorabile fallimento, e non poteva essere cosa degna di “uno come me”.

         Eccola, la mia “ gabbia d’oro”, così dolcemente calamitata!

         In quella dimensione sognante, fu naturale che io non potessi accorgermi della quotidiana violenza, che, sia pure involontariamente, veniva arrecata alla mia personalità: così, in me fu educato in realtà un altro, un’ombra; ed io finii per scambiare fatalmente questa immagine di me stesso, che si rifletteva nello specchio degli altri, per il mio unico ed autentico volto; quello che, invece, ero o potevo essere veramente, che sto riscoprendo oggi, con immensa gioia, come in una quotidiana avventura, non poteva che apparirmi se non come una parte cattiva e perversa di me, della quale bisognava vergognarsi subito e di cui occorreva far perdere al più presto le tracce.

         Era quella parte di me, che talvolta, contro ogni regola, come un’oscura tentazione, avrebbe desiderato confondersi con la terra, sporcarsene, impadronirsene, manipolarla, plasmarla, vederla trasformarsi sotto l’azione creativa delle mie mani; era il mio segreto amore per gli oggetti apparentemente inutili, da riscoprire e combinare in composizioni fantastiche; erano quelle “pazze” proposte che ogni tanto avvertivo affiorare dentro di me e che in certi momenti mi invitavano ad allentare il controllo di me stesso, per esprimere liberamente le mie emozioni: cantare, imprecare, saltare, correre, inventare giochi sempre nuovi, incontrarsi con i tanto disprezzati “ragazzi di strada”, andarsene per il mondo nudo e sciatto, ma libero e totalmente padrone di me stesso, a caccia di sensazioni nuove……

         Ora, ormai, so bene che questa parte di me era la mia creatività, la mia più profonda energia vitale, la mia autorità il mio destino, ciò per cui la vita, oggi, mi sta diventando sempre più degna di essere vissuta: vi stavano racchiusi tutti i miei attuali interessi per le espressioni artistiche; vi erano le impronte uniche ed irripetibili dei miei passi nel mondo, la mia traccia!

         Crescendo, forse avrei dovuto appropriarmi di tutta questa ricchezza con le mie sole forze, con un atto di coraggio, visto che nessuno me la riconosceva, né, tanto meno, mi avrebbe aiutato a valorizzarla adeguatamente.

         Ma, forse, a quel tempo, ero io stesso il primo a non riconoscere come mio questo caleidoscopio di sensazioni; e poi sarebbe stato necessario entrare in collisione con quell’universo di amore che mi circondava, infrangerne i “preziosi” codici, separarmene, rinnegare mio padre e mia madre e, quindi, sentirmi fatalmente solo: questo, assolutamente, non mi sarebbe stato mai possibile!

          Ed ecco, a questo punto, prepararsi il dramma della mia adolescenza:  adesso lo vedo ben chiaro.

         Quando, durante il periodo della Scuola Media, cominciai ad avvertire nuove e strane energie  farsi strada dentro di me, in quel mio corpo che si allungava, si irrobustiva e si trasformava dinanzi ai miei occhi meravigliati, preoccupati e continuamente intenti a scrutare con ansia i segni di una nuova stagione, la parte nascosta di me prese improvvisamente campo, ruppe gli argini e mise in subbuglio tutto quel mio mondo di affascinanti armonie.

         Cominciai, mio malgrado, a divenire caparbio, oppositivo, ribelle, disordinato e mi accorsi, ben presto, che dentro di me c’era anche un altro: una persona insoddisfatta, che voleva dire no ad un mondo di dolci proposte, il quale, evidentemente non era mai stato suo; era la persona che se n’era stata fino ad allora in ombra dentro di me, facendo solo sporadiche comparse. Adesso sarebbe stato il momento di dialogare apertamente con lei, per costruire la mia individualità più autentica: ma come fare, dinanzi agli atteggiamenti di stupore e di delusione che le mie nuove vibrazioni determinarono subito in tutti coloro che mi circondavano?

         Attorno a me si creò di colpo un’atmosfera di ricatto, di inespressi rimproveri: mi sentii per la prima volta giudicato, solo, rifiutato e finii col considerare la mia trasformazione, che altro non era se non il segno legittimo di una crescita, come una mia “malattia mortale”, come l’irrompere di un mio interno, misterioso Mr.Hyde, che rischiava di devastare la mia esistenza, ed iniziai a considerarmi un traditore, un potenziale delinquente, un malato mentale: cominciò così la mia fuga, il mio esilio da me stesso.

         Per non corrodere l’immagine che gli altri avevano di me, per non perdere il loro amore, accettai di perdere me stesso: ma con me stesso se ne andava la mia autorevolezza, la mia forza di esistere, tutta la mia sicurezza.

         I segni della nuova energia, che erano comparsi con la mia crescita, mi divennero troppo rischiosi; cominciai così ad aver paura di tutto ciò che potesse presentarsi come veramente mio; ritenni “cattivo” il mondo che poteva scaturire da me e differenziarsi dall’universo degli altri; rinunciai sempre più a scalfire le realtà con la mia presenza, con le mie emozioni, con la mia creatività, e divenni quello che Lei ha chiamato, un giorno, un profugo esistenziale, un senza-tetto: taciturno, abulico, malinconico, poco socievole, sempre intento a processarsi, a scavarsi l’anima con continue autoaccuse, il quale si curava solo di cercare l’approvazione altrui e soltanto nel giudizio degli altri poteva trovare, ormai, la convalida del proprio diritto ad esistere. Mi trasformai in un viandante che, per la paura di voltarsi e vedere le impronte dei propri passi nel mondo, preferisce camminare sul terreno già calpestato dagli altri.

         In questo modo riuscii a ricostruire attorno a me una caricatura di serenità; ottenni nuovamente, o, almeno, mi parve di riottenere, quell’amore che avevo così disperatamente temuto di perdere; me ne nutrii come un accattone; mi convinsi che la mia vera strada era quella: finii tutti i miei studi con risultati passabili, anche se non del tutto corrispondenti ad antiche aspettative; poi, ecco il primo lavoro, i primi passi sulla via della carriera di mio nonno: tutto come era stato accuratamente scelto e deciso da altri.

         Fui anche apprezzato ed ebbi i miei primi successi…… Per ironia della sorte fui persino giudicato un giovane “senza grilli per la testa”!

         La mia inerzia interiore, il mio conformismo, il mio aggrapparmi disperato al mondo degli altri, divenivano, ora, paradossalmente, la mia “serietà” sul lavoro, la mia carta di credito sociale!

         Ma a quale costo?

         Quanto fosse stato duro e distruttivo il pedaggio che avevo inesorabilmente pagato alla mia esistenza di fuggiasco, iniziai a capirlo drammaticamente quando cominciarono ad entrare nella mia vita le prime ragazze, ed io mi sentii improvvisamente inetto a reggere qualsiasi tipo di rapporto con persone, che, pur volendomi bene, avessero una vita “loro”, anche minimamente differenziata dalla mia: mi scoprii ansioso, insicuro, dipendente, possessivo, geloso ed invidioso, bisognoso ossessivamente di continue conferme d’amore, incapace di reggere alla più breve separazione, continuamente preoccupato del giudizio che poteva essere formulato sulla mia figura di uomo, spesso afflitta anche da frequenti insicurezze sul piano sessuale, e vidi,  perciò, fallire, uno per uno, tutti i miei tentativi di relazione affettiva.

         Privo com’ero di un mio autentico spessore esistenziale e di una mia solida autonomia interiore, finivo col cercare nel femminile, come spesso Lei mi ha detto, un’accoglienza materna, un’autorità che mi desse quella sicurezza che non ero stato in grado di  costruirmi da solo: così, per succhiare l’ossigeno di cui avevo bisogno, giungevo a soffocare l’altra persona, perdendola inevitabilmente, in un groviglio di sensi di colpa, di odio, di depressione.

         A questo punto, forse, vi è ben poco da aggiungere al quadro del mio più lontano passato di fuggitivo. In tale modo, sempre più faticoso ed insostenibile, in un universo di fatalità che si faceva di volta in volta sempre più immobile e privo di attrattive, si trascinavano ormai la mia esistenza interiore ed i miei rapporti con gli altri, quando un giorno, per uno stato di depressione più insopportabile del solito, dovuto ad un ennesimo fallimento sentimentale, alcuni amici mi suggerirono di rivolgermi ad uno psicologo, facendomi il Suo nome, ed io mi recai svogliatamente da Lei, come a tentoni, alla ricerca di un qualche rimedio.

         Ho avuto spesso occasione di chiedermi per quali vie straordinarie, in un incontro umano inizialmente casuale, circoscritto, scontato, quotidiano, nato fra due persone dalla vita e dalle storie totalmente diverse fra loro, possa crearsi gradatamente una misteriosa sintonia, un magico allargamento di orizzonti, che cancella  piano piano ogni estraneità, sino a farti sentire l’altra persona come una parte di te stesso, come una presenza profondamente antica, ma dimenticata, con la quale era destino che un giorno ti ricongiungessi per ritrovare la sorgente più profonda della tua vita.

         Non so dare una risposta adeguata ad una domanda del genere: forse si tratta di sensazioni da vivere solo nella loro immediatezza, più che da analizzare in modo razionale. So soltanto, però, che il rapporto che nacque fra noi, a partire da quel giorno anonimo, casuale, appartiene a questa categoria di incontri straordinari, che – ora ne sono certo – decidono di un’intera esistenza.

         L’inizio dei nostri colloqui fu convenzionale, come un qualsiasi fatto di cronaca: stretto com’ero dall’angoscia di un evento scottante verificatosi da poco tempo, intesi recarmi da un esperto, da un “tecnico” delle relazioni umane, perché, nelle regole della domanda e dell’offerta, mi fornisse delle ricette, dei consigli pratici su come migliorare i miei rapporti con le ragazze, e divenire, così, più attivo, più dinamico, meno dipendente.

         Anche a Lei, così, riproposi, com’era naturale, la mia ormai consueta  maschera sociale di persona interamente abituata ad affidarsi all’autorità degli altri, a seguire le tracce altrui: non chiedevo, né volevo altro e con queste aspettative affrontai le prime conversazioni con Lei.

         Strani colloqui, però, i nostri, fin dall’inizio: mi è accaduto spesso di ripensarci in seguito, per il susseguirsi di sensazioni contrastanti ed inusitate che ne caratterizzarono subito l’andamento.

          C’era in Lei una cordiale disponibilità, un’espressione di continua vicinanza, di accettazione, di comprensione immediata – come se Lei stesso, paradossalmente, avesse provato più volte nella Sua vita i miei medesimi tormenti –, che si traduceva in un invito quasi affettuoso ad esprimersi, a parlare, a non tenere nascosto niente: ed era una proposta che io seguivo ampiamente, dipanando nei minimi particolari tutte le cronache dei miei amori perduti, che Lei ascoltava e sottolineava con qualche intervento chiarificatore.

         Ma, ecco, c’era anche, nel Suo modo di ascoltare un clima un po’ impalpabile, sfumato ed enigmatico, come una tacita attesa d’un indefinibile “di più”, che, prima o poi, inevitabilmente avrebbe potuto o dovuto emergere fra noi, che spesso, mentre Le parlavo, mi lasciava stranamente disorientato e mi infondeva, talvolta, una specie di malessere, quasi di struggimento, come se vibrasse nell’aria, proveniente da spazi remoti, un segnale, un richiamo, una musica lontana, che, trapassando le barriere del tempo e della quotidianità, si dirigeva direttamente al centro, al cuore di me stesso, risvegliandovi echi nascosti, sconosciuti e, direi, sottilmente affascinanti. In quei momenti avevo la netta sensazione che tutta la storia disgraziata dei miei amori fosse la conseguenza di un “male oscuro”, assai più ampio e profondo, che prima o poi, ormai, avrei dovuto scoprire, anche se mi poteva far paura.

          Inizialmente, comunque, fui portato a pensare che questa strana sensazione, che accompagnava, come un basso continuo, i nostri colloqui, fosse l’effetto abbastanza naturale di una certa “atmosfera” terapeutica, della quale talvolta avevo sentito parlare. Ma poi, dapprima in modo vago e fluttuante, successivamente a volute sempre più ampie ed inarrestabili, questa segreta musicalità, questa strana malia che costituiva l’altro versante del Suo ascolto, cominciò lentamente ad insinuarsi, a crescere ed amplificarsi dentro di me, specialmente via via che, col passar del tempo, esaurivo la narrazione dei miei problemi più immediati e mi accorgevo che, contro ogni iniziale aspettativa, quelle ricette e quei consigli pratici che mi attendevo da Lei, non arrivavano mai. Però, stranamente, io quasi non me ne sentivo deluso, poiché già il narrarLe di me era stato in grado di infondermi una forza ed una serenità un po’ nuove, che allentavano molte delle mie tensioni. E più si allentavano le mie ansie, più mi scoprivo maggiormente preso da questa specie di “incanto”, che non riuscivo a decifrare, ma che mi entrava nell’anima e la riempiva come una presenza che io stesso, ormai, finivo col sentire necessaria, anzi mia. Era quasi come una specie di rombo lontano, che quotidianamente cresceva.

         Alla fine, questo alone di segrete risonanze si impadronì totalmente di me, come una forza inarrestabile, cui non potevo, non sapevo e – finalmente me ne accorsi –, non  volevo più opporre resistenza, ed anche io mi posi ad ascoltare, ad attendere non so bene che cosa: se un consiglio, una rivelazione, oppure una modifica del nostro rapporto…… So soltanto che ciò che avevo considerato in un primo tempo come un elemento accessorio, una semplice cornice dei nostri colloqui, divenne a questo punto l’elemento più vitale e desiderato dei nostri incontri, che mi attraeva, mi seduceva e mi faceva attendere sempre più ogni nostra seduta con ansia, trepidazione ed avido desiderio.

         Allora mi lasciai andare, e, quasi  senza accorgermene, cominciai a percepire la mia vita come una specie di “favola”, ricca di significati che valicavano i confini della quotidianità e che, anzi, facevano della quotidianità stessa un “segnale “ di qualcos’altro, nascosto dietro le quinte, di cui io stesso ero, simultaneamente, regista e protagonista.

         In questo modo, tutta la mia storia personale, da quella più remota a quella attuale, agli stessi riti, gesti, malesseri, dubbi, insicurezze e problemi relazionali che accompagnavano la mia vita di tutti i giorni, mi apparve come espressione di un unico  “filo conduttore”, che a tutto dava significato unitario, come un’unica trama connettiva.

         Il mio “stile” di rapporto con me stesso cominciò a modificarsi: divenni più attento, pensoso, meno dipendente dagli eventi esterni e dagli umori altrui, anche se pur sempre vulnerabile, fino a che la “favola” della mia vita prese corpo, una notte, in un sogno, che, letteralmente, mi esplose dentro con inaudita irruenza, soprattutto per la chiarezza e forza delle immagini e, nel contempo, per la suggestione remota ed incantata che lo pervadeva; un sogno assai diverso da tutti gli altri, così intrisi di quotidianità e così affollati di personaggi di tutti i giorni, che avevamo analizzato fino ad allora.

         Lo chiamai “Il sogno della tomba in fondo al mare”, lo ricorda ?

         “Mi trovavo naufrago, stracciato, solo e a piedi nudi su una scogliera sperduta, in mezzo ad un mare tempestoso, in un’alba che incendiava il cielo di luce rosata, mettendo in fuga le ultime nubi. Avevo trascorso una notte di terrore per il continuo rischio di essere spazzato in mare dalla tempesta, ed ora sentivo fitte acute ai piedi, che scoprivo feriti e sanguinanti a causa delle punte aguzze degli scogli. Mi era ormai impossibile resistere ancora su quegli scogli inospitali, taglienti come vetro e già disperavo di salvarmi, quando mi pareva di intravedere all’orizzonte, alla luce ancora incerta, un movimento: forse una vela, una traccia di fumo, o, forse, anche una terra. Dapprima urlavo un disperato richiamo, subito soffocato dal rumore dei marosi; poi, repentinamente, senza pensarci, decidevo di tuffarmi per raggiungere a nuoto quella traccia lontana; ma, con immenso terrore, mi inabissavo, come fossi di piombo, dibattendomi disperatamente, e discendendo, mio malgrado, sempre più in profondità. Dopo poco, sentendomi soffocare, mi rassegnavo ormai alla fatalità dell’annegamento, quando, con enorme sorpresa, mi accorgevo d’essermi trasformato quasi in un pesce umano, che poteva respirare e muoversi liberamente, come se si trovasse nel proprio elemento. Allora mi lasciavo andare alla discesa e, dopo un tempo che mi parve lunghissimo, toccavo finalmente il fondo del mare: un fondo corallino, trasparente, terso, silenzioso, quasi sacro. Davanti a me, una caverna strana, dall’imboccatura incrostata di madreperla e sorretta da un’architrave istoriata, ma indecifrabile, forse opera d’antichissimi artigiani, che ricordava vagamente l’ingresso d’una tomba egiziana o etrusca. Come attratto irresistibilmente da un misterioso invito, varcavo quella soglia e rimanevo di colpo abbagliato dalla luminosità dell’ambiente, dove si mescolavano,  in meravigliose combinazioni, tutti i colori dell’iride e si svelavano a poco a poco, dinanzi ai miei occhi attoniti, i tesori più affascinanti che un essere umano, sia adulto che bambino, potrebbe mai desiderare: monili, collane, gingilli, suppellettili, gioielli, statuette, monete, abiti preziosi e multicolori, tutti tempestati di pietre preziose d’ogni specie e qualità, e, alle pareti, affreschi vivacissimi, raffiguranti danze, giochi, scene d’amore, momenti di intimità familiare, paesaggi primaverili incantati, animali d’ogni genere, in un susseguirsi di ritmi cromatici gioiosi ed incalzanti. Dinanzi a questo spettacolo,  venivo preso da una felicità profonda, commovente, irresistibile e fanciullesca e mi mettevo a gridare, a cantare, a toccare tutto, a rivestire il mio povero corpo di naufrago di tutti quei gioielli, a giocare come un bambino, finchè non mi svegliavo con una sensazione di gioia luminosa e con l’acuto e avido desiderio di guardarmi allo specchio, quasi per rintracciare sul mio corpo i segni di tutti quegli antichi tesori.”

         Una volta, a scuola, ho letto una frase del poeta inglese John Donne, che mi è rimasta come scolpita nell’anima: “Fino a che l’uomo si porterà un sogno nel cuore, non perderà il senso della vita”.

         Anche se l’autore, forse, non voleva alludere propriamente ad un sogno nel senso letterale del termine, penso che questa espressione possa esprimere adeguatamente ciò che cominciò a costruirsi in me, dopo che queste immagini del mio inconscio irruppero improvvisamente nel nostro dialogo.

         Già nel narrarLe il sogno, sentii d’un tratto qualcosa di intensamente familiare farsi strada in quelle visioni che mi erano apparse in un primo tempo gioiosamente seducenti, sì, ma poco legate alla vita reale. Dapprima, come in sordina, cominciarono a riecheggiarmi nella mente frasi lontane, echi di antichi divieti, di sottintesi  rimproveri (“Non ti sporcare !”; “Non perdere tempo in modo insulso !”; “Che cosa stai cercando fra quelle vecchie porcherie ?”; “Vai a studiare, che è meglio, anziché distrarti con  stupidaggini !”; “Ricordati, Donato, che nella vita ci sono cose ben più importanti di queste tue fissazioni sui colori…… e poi, ti macchi tutto!”); poi, mi balenarono nella memoria, come su sfondi nebbiosi, cipigli severi, volti ambiguamente accattivanti e, soprattutto, immagini confuse di un me stesso piccolo, spaurito, indifeso, che si meravigliava, non capiva, tentava di opporsi, di dire no, di salvare il proprio spazio, e poi…… subiva, rinunciava, fuggiva, seppelliva…… si seppelliva……

         Mi ero sepolto!…… Ecco, infine, un grido, un suggerimento, una traccia, la chiave del sogno, che intravidi in un lampo, quando, dopo un lungo silenzio, con inaspettata corrispondenza, Lei mi chiese di parlarLe dei miei giochi di infanzia, dei miei interessi più antichi, delle cose che mi erano sempre intimamente piaciute di più, che avevo considerato più indelebilmente mie, ed io sentii affollarsi dentro di me una incalzante moltitudine di ricordi e cominciai a parlarLe vorticosamente di tutti i miei lontani amori per la terra, per i colori, per le cianfrusaglie, per la natura e gli animali, scoprendomi per la prima volta ad usare un linguaggio nuovo, quasi balbettante, mentre, nel frattempo, si dipingeva in me, sempre più chiaro, tutto l’inganno della mia vita, il tradimento che avevo inflitto a me stesso: il mio naufragio esistenziale, come lo chiamò Lei, quando, alla fine del mio lungo fiume di parole, mi disse che il mio inconscio, ormai, non mi concedeva più di protrarre ancora a lungo la mia impossibile permanenza sulla tagliente scogliera della mia vita e mi attirava irresistibilmente in profondità, a riscoprire i miei tesori sepolti e a rivestirmene, per ridare nuovo significato al mio esistere.

         Capii, allora, che avevo sognato me stesso, la mia interiorità, la mia vera casa interna, che io avevo trasformato, con le mie rinunce esistenziali, in una tomba. Laggiù, nel fondo di quel mare del mio inconscio, era quindi racchiuso il significato più autentico dell’intera mia vita; nell’immagine di quella tomba si annodavano tutte le fila della mia storia personale.

Firenze, Ottobre 1990

Donato, ex ragioniere ed ex impiegato di Banca, oggi fa il restauratore di mobili antichi ed è anche un pittore e ceramista discretamente quotato. La lettera che volle scrivermi nell’ultimo anno dei nostri incontri, iniziati nel 1986, fu dettata dal suo desiderio di “fare il punto” del nostro percorso terapeutico e precedette di poco la sua “storica” decisione di lasciare l’impiego, dopo aver frequentato corsi di restauro e di ceramica.

La lettera è stata oggetto di qualche “ritocco” da parte mia, al fine di renderla un po’ più “pubblica”, o “pubblicabile” – dietro il consenso del suo autore –, ma nulla vi è stato aggiunto rispetto al testo originario.

Luigi Adamo

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e troviamo tutto ciò che sta aspettando.


Pablo Neruda, Ricorderai.



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